«Sono a Milano da tre giorni, ma appena sento un rumore mi precipito fuori dall’albergo pensando siano missili. Anche se adesso sono al sicuro, la notte non riesco a dormire». Moshe Fisch è un artista israeliano. Classe 1961, vive a Rehovot, una città vicino a Tel Aviv, ed è un compositore, pianista e cantante lirico, appassionato soprattutto di Verdi e Puccini. Si è avvicinato all’Italia per la sua musica d’opera, che conosce bene, finché domenica 15 ottobre ha preso un volo da Tel Aviv ed è arrivato a Milano. Per lui la vita in Israele era diventata troppo ansiogena e ha sentito l’esigenza di andare via finché la situazione non sarà più stabile.
Signor Fisch, perché ha scelto proprio l’Italia?
Ho un amico che vive a Milano. Da anni mi invitava a trascorrere un po’ di tempo qui da lui, per uno scambio linguistico: io insegno l’ebraico e lui, e lui l’italiano a me. Ho sempre rimandato, fino a ora. Non avrei mai immaginato che il pretesto per venire qui fosse una guerra. Starò qui finché Israele non sarà più tranquillo. Ci potrà volere un mese, o due, o tre.
Aveva paura lì?
Sì, io ho problemi di salute e per me era troppo difficile restare in Israele. Non ce la facevo più a sentire i missili dietro la testa, a precipitarmi nel rifugio tre o quattro volte al giorno. Correvo e vivevo nel panico. Questa non è una vita normale, è una vita a cui nessuno di noi è abituato. Piangevo tutti i giorni. Questo è un olocausto. Anche quando finalmente ero sull’aereo, verso la pace, ci sono stati due allarmi e siamo dovuti correre ai rifugi. Avevo paura di non partire, grazie al cielo ce l’abbiamo fatta.
Ha lasciato qualcuno in Israele?
I miei genitori di sangue non ci sono più. Loro hanno vissuto l’olocausto prima di me: mia madre è stata portata nei campi di concentramento all’età di nove anni, in Polonia, mentre mio padre quando è stato preso aveva quattordici anni e si trovava in Transilvania. Si sono conosciuti poi in Svezia, quando facevano l’università, e hanno deciso di trasferirsi in Israele nel 1949. Pensavano che lì sarebbero stati al sicuro, e invece non è stato così. Ma mia madre non ha mai voluto raccontare nulla dell’olocausto, la mia conoscenza di ferma qui. Magari succederà anche a me alla fine di questa storia. La mia famiglia acquisita è rimasta lì. Il figlio più grande adesso è arruolato nell’esercito.
Lei è un compositore, un cantante e un pianista. La musica è stata d’aiuto da quando è scoppiata la guerra?
«Purtroppo no. Mi sentivo come un uccellino che smette di cantare quando c’è qualcosa che non va, non riuscivo a fare musica. Non avevo la testa per dedicarmici, non cantavo e non suonavo. Ero in panico e sentivo che non ci fosse nulla in grado di aiutarmi. Mi manca. Quando sarà tutto più tranquillo, mi metterò al pianoforte e sarò felice. Ma adesso no, neanche qui in Italia ci riesco. Finché non sarà finita la guerra dubito di riuscire ad avere la tranquillità per suonare di nuovo. Stessa cosa per i miei amici musicisti, quelli che sono ancora vivi. Per gli altri, non c’è più musica.
Le è mai capitato di parlare di temi politici o sociali, in particolari quelli relativi al suo Paese, nelle sue composizioni?
No, non ho alcun rapporto specifico con i palestinesi. Qualcuno vuole la pace, ma non tutti: soprattutto a Gaza, ci sono dei terroristi. Coloro che hanno invaso Israele sono arrivati per uccidere, non ci sono sentimenti. Vedono una persona, non sanno chi sia, sparano. Come dei barbari. Non tutti i palestinesi sono terroristi, ma non mi fido. Alcuni da Gaza hanno il permesso di lavorare in Israele, ma non siamo tranquilli. Perché è già successo che queste persone dessero poi informazioni a Hamas su ciò che succede a Israele. O alcuni, nel tempo, si sono rivelati terroristi.
Cosa pensa della risposta di Israele nei confronti di Gaza?
Israele ha dovuto rispondere, altrimenti Hamas l’avrebbe rasa al suolo. Però c’è una differenza. Prendiamo in considerazione la guerra russa in Ucraina: Vladimir Putin non annuncia quando compirà un attacco. Lancia i missili e chi muore, muore. Noi invece siamo più umani. L’esercito israeliano ha annunciato molto tempo prima che avrebbe risposto, in modo da permettere ai civili di allontanarsi. Noi facciamo così: diamo tempo. Perché non vogliamo che nessuno venga ucciso. E soprattutto, ci tengo a ricordare che non abbiamo iniziato noi questa guerra. Al momento mi sento sicuro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, perché so che non è solo, ma è consigliato dal ministro della Difesa e due persone importanti che hanno conseguito alti gradi nell’esercito in passato. Mi fido anche di Joe Biden e del Papa.
Come finirà questa guerra?
Non vince nessuno. Io spero che Israele vinca, ma ci saranno persone uccise sia da una sponda sia dall’altra. Mi aspetto un gran caos, che ci distruggeremo a vicenda. Per questo vorrei incontrare il Papa, ora che sono in Italia, e chiedergli di intervenire per porre fine alla guerra. Vorrei aiutasse entrambe le parti, non solo noi. Perché io credo nell’armonia del mondo.