Nel regime dell’informazione in cui siamo immersi, una delle conseguenze di una mancata capacità di regolazione rischia di essere un assist clamoroso ai regimi che fanno della disinformazione un perno della cosiddetta guerra ibrida. Come noto, il tema della diffusione di fake news – insieme con la guerra psicologica e gli attacchi cyber- è fondamentale nella combinazione delle operazioni finalizzate ad attuare il nuovo modo di combattere nella società odierna. Lo abbiamo visto con l’ISIS, che combinava tattiche comunicative e disinformativ ,formazioni strutturate e uso crudele del terrore come elemento essenziale del proprio arsenale. Lo abbiamo visto in Ucraina, dove il concetto della Dottrina Gerasimov come guerra ibrida ha visto mettere in campo – a fianco degli attacchi fisici – una strategia di attacco cognitivo e informativo.
Lo vediamo ormai quotidianamente in diversi campi, nei quali l’avvento dei social media ha fornito a Paesi che vogliono minare o indebolire le nostre democrazie la possibilità di utilizzare gli stessi strumenti inventati un secolo fa dal KGB. E L’Italia rischia di essere un ventre molle della disinformazione. Lo denotano i primi rapporti che stanno emergendo dal lavoro che abbiamo fatto in Europa: l’Italia nel primo semestre 2023 è su Facebook e Instagram seconda dopo la Francia per contenuti classificati come fake news, e prima per contenuti rimossi.
Siamo alle porte di una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo: far sì che il dibattito pubblico sia libero, assicurare ai cittadini che le fonti della loro informazione sono corrette e non inquinate, evitare che vi siano ingerenze straniere e che mirino a condizionare il voto credo che possa essere un obiettivo di tutti, perché sui temi della sicurezza occorre lavorare in maniera bipartisan.
Abbiamo visto cosa è accaduto ancora nei giorni scorsi. In Slovacchia ha vinto le elezioni un partito filorusso e anti europeo, islamofobico e contro i diritti delle minoranze, grazie a una campagna di disinformazione che andava avanti almeno dall’inizio della guerra in Ucraina.
In Polonia una trentina di persone sono state arrestate perché facevano parte, alcune anche senza consapevolezza, di una rete di disinformazione prima e di sabotaggio poi delle linee ferroviarie funzionali ai rifornimenti militari per l’Ucraina. Nella Svezia che oggi piange i morti dell’attentato jihadista di Bruxelles il primo ministro ha denunciato ingerenze straniere nella vicenda dei roghi del Corano, messe in piede con l’obiettivo di condizionare il voto della Turchia sull’ingresso di quel paese nella Nato. Le Monde nei giorni scorsi ha denunciato una campagna di fake news generate dall’intelligenza artificiale per screditare alcuni candidati alle prossime elezioni europee. E si potrebbe continuare con gli esempi.
Dunque è forse il caso di riflettere se non sia il caso di lavorare anche nel nostro Paese – sulla scorta di esempi come la stessa Svezia – per creare una specifica agenzia contro la disinformazione, al fine di difendere la nostra società libera e aperta e la libertà di informazione, individuando, prevenendo e contrastando le attività volte a influenzare il dibattito pubblico con informazioni totalmente o parzialmente false, attuate in modo organizzato da paesi stranieri o da questi sostenuti o infine realizzate contro gli interessi italiani.
False credenze, teorie, complottismi, cospirazionismi oggi ammorbano il nostro dibattito pubblico, lo inquinano e mirano a destabilizzare la tenuta delle opinioni pubbliche europee. La difesa della nostra libertà, premessa per una nostra maggiore sicurezza, passa anche da qui.