Sui sentieri della transumanza I piatti dei pastori, un patrimonio antico da assaporare ancora oggi

Dall’acquacotta all’amatriciana, la cucina nata nei pascoli è parte integrante della cultura gastronomica italiana

Foto di Antonello Falcone - The Wiseman su Unsplash

«Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti».

I versi di D’Annunzio raccontano in poche pennellate come il continuo viaggiare dei pastori abbia segnato il paesaggio e la cultura del nostro Paese. Come abbia nel volgere dei secoli unito la montagna al mare, disegnando una mappa che lega tra loro terre lontane e diverse. Il territorio italiano è in gran parte occupato da montagne e da terre non coltivate, dove per secoli l’unica attività possibile è stata la pastorizia: il muoversi delle greggi ha caratterizzato la tradizione gastronomica e non solo di queste terre.

La cucina pastorale, come tutta la cucina popolare, non rispetta i confini amministrativi delle regioni e si definisce nel suo nascere dalla necessità: i piatti dei pastori sono fatti per sostenere chi si trovava per lungo tempo lontano da casa, gente che poteva portare con sé solo cose che si conservassero, come pane, cipolla o aglio, formaggio, a cui potevano aggiungere le erbe profumate che si trovavano nei pascoli. Per non dimenticare poi i piatti realizzati proprio con la carne delle pecore che si portavano al pascolo: parti meno nobili e interiora, soprattutto. Da qui sono nati piatti quasi dimenticati, che sopravvivono solo nelle tradizioni locali, ma anche vere e proprie star del mangiare all’italiana, un esempio su tutti, l’amatriciana.

In Abruzzo
«E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri».

È ancora D’Annunzio a guidarci nel suo Abruzzo, lungo i sentieri erbosi seguiti dalle greggi nel secolare passaggio dal monte al piano, i tratturi, disegnati nei secoli dalla transumanza. Fino alla fine dell’Ottocento i pastori guidavano le greggi verso «l’Adriatico selvaggio», dove trascorrere lontano dai rigori del freddo la stagione invernale, per poi risalire a maggio ai pascoli di alta montagna.

Come i tratturi, anche la cucina dei pastori è un segno tuttora visibile di questa tradizione, e ancora oggi la carne di pecora, capra, agnello, capretto e castrato domina sulle tavole abruzzesi. Agnello cacio e ova, gli ormai celeberrimi arrosticini, testina ripiena, agnello incaporchiato, con le patate, pecora al cotturo, agnello in fricassea, intingolo di castrato, ragù di agnello, senza dimenticare le preparazioni a base di interiora, dalle mazzarelle, frattaglie avvolte in foglie di lattuga, al cazzmarr o magliatello, involtino di budelline farcite con animelle e fegatini.

Un esempio di come le tradizioni dei pastori in Abruzzo siano ancora vive è la prucraregna. A Castiglione Messer Marino, piccolo borgo nella Comunità Montana dell’Alto Vastese, la prucraregna, la pecora, è un grande piatto conviviale: un intero montone, che dopo la prima monta viene castrato, così che la sua carne diventa gustosa ma tenace. Per questo la carne, tagliata a pezzi, deve cuocere per ore, lentamente, in un brodo insaporito con erbe di montagna e aromi locali.

Un tempo la prucraregna veniva preparata dai fabbri o dai pastori: i primi, nel pomeriggio, durante il lavoro, mettevano a lessare la pecora sul fuoco delle fucine, in grandi recipienti di rame. I pastori invece la cucinavano direttamente al pascolo, mettendo due pietre sul fuoco e usando un calderone per la cottura. Tutti la mangiavano con le mani, in segno di fratellanza, fratellanza che si rinnova oggi preparando questo piatto in occasione di feste familiari.

Sui sentieri dell’acquacotta
In Toscana si allevano pecore fin dal quinto secolo prima di Cristo, quando gli Etruschi consumavano carne e formaggi ovini. Nei secoli si sono diffuse quelle colture che caratterizzano il paesaggio toscano, ulivo e vite su tutte, ma questa attività non è stata mai abbandonata, le greggi hanno continuato a seguire le vie della transumanza, spostandosi dai pascoli estivi di montagna alle terre di Maremma, dove trascorrevano l’inverno. E ancora oggi, percorrendo le strade che costeggiano il Tirreno, non è raro per turisti e villeggianti vedere le greggi pascolare brade nei campi dove, dopo il raccolto, vengono lasciate libere di brucare le stoppie.

Sono quegli stessi turisti che la sera si possono sedere a tavola in uno dei tanti ristoranti della zona e gustare un’acquacotta: pane raffermo, cipolla, brodo e quello che offriva l’orto. Di qui il nome, “acqua cotta”, come dire “niente cotto”. Si sono aggiunti i pomodori, alcuni uniscono bietole, fagioli, erbe aromatiche, ma la sostanza era ed è data dall’uovo che si rompe sopra la zuppa e si cuoce con il calore della stessa. Immancabile, poi, il filo di olio a crudo.

Una ricetta che varia non solo in base alla stagione (possono comparire addirittura verdure come cardi, carciofi, broccoletti), ma anche in funzione delle zone: l’acquacotta viene preparata nella Maremma toscana, certo, ma anche in tutta la Maremma laziale, nel Viterbese e nella Tuscia. Ma nel tempo, seguendo i pastori che la cucinavano, ha percorso lungo l’Appennino i sentieri della transumanza: nel Casentino, dove la Toscana incontra la Romagna, si aggiungono le salsicce e il pecorino; nelle Marche l’acquacotta viene profumata con la mentuccia e può essere preparata anche con i ceci, con le patate, e arricchita con l’agnello, o addirittura con il baccalà.

Foto di Joe Pregadio su Unsplash

La Sardegna e il Sud
La pastorizia è, tra le attività tradizionali, un simbolo della Sardegna: i pascoli profumati di erbe mediterranee hanno reso prospero l’allevamento di capre, ma soprattutto di pecore. Anche qui la transumanza ha segnato il territorio, lungo i sentieri che dal massiccio del Gennargentu scendono verso la pianura. I formaggi prodotti nella regione sono esito di questa attività e della profonda conoscenza dei pastori, così come lo sono altri piatti. Su tutti la zuppa gallurese, chiamata anche suppa cuatta: gli ingredienti di cui si compone sono semplicissimi, una base di spianata sarda o di pane carasau, brodo misto di manzo e pecora, formaggio (pecorino sardo e caciocavallo), olio aromi, prezzemolo, finocchio selvatico, menta. Si dispongono a strati gli ingredienti in una teglia e si cuoce tutto in forno.

Piatto simbolo della cucina pastorale in Puglia è l’agnello a cutturiedde, a pezzi, cotto in casseruola con pomodori, cicoria e pecorino, una preparazione che si può gustare anche nella vicina Basilicata. Qui si trovano specialità come l’acquasaledei pastori, o cialledda di Matera, pane raffermo ammorbidito con l’acqua insaporita con un soffritto di aglio, peperone crusco e peperoncino, il tutto arricchito con uova in camicia. Ancora gli ingredienti sono quelli che si possono conservare in un tascapane e assemblare con semplicità, anche al pascolo.

Sua maestà l’amatriciana
E nel tascapane dei pastori di Amatrice c’erano, si racconta, pecorino e la pasta secca: ingredienti che si conservavano bene nei lunghi mesi trascorsi lontano da casa sulle vie della transumanza, e che si preparavano facilmente. Bastava un pentolone con tanta acqua per preparare una pasta saporita, quella che oggi chiamiamo “gricia”. Fu solo in un secondo momento che si aggiunse il pomodoro: chi dice che i pastori abbiano imparato ad aggiungerlo al mercato di Roma, dove si incontravano e scambiavano merci e conoscenze, chi dice che abbiano conosciuto il pomodoro alla fine del diciottesimo secolo grazie ai napoletani, quando il territorio di Amatrice ricadeva, appunto, nel Regno di Napoli.

Oggi la cittadina, a pieno titolo laziale, è famosa nel mondo per questo piatto, arrivato nelle osterie romane e da lì diventato bandiera della cucina della capitale in Italia e nel mondo.

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