Virgilio a ManhattanPerché l’Eneide è diventato un perno della cultura occidentale

Come spiega Aldo Cazzullo nel suo libro “Quando eravamo i padroni del mondo. Roma: l'impero infinito” (Harper Collins) il poeta mantovano ha creato una opera che risuona attraverso i secoli, adattandosi a contesti e interpretazioni diversi e influenzando personaggi come Dante, Petrarca, Ariosto, Shakespeare, Eliot e Cristoforo Colombo

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L’Eneide divenne un fenomeno culturale, un classico, già prima di essere pubblicata, quando i vari libri venivano letti ad alta voce. Si narra che Ottavia, la sorella di Augusto, fosse svenuta, colta dall’emozione sentendo la dedica a Marcello, suo figlio, nel sesto libro. E già i romani – non si sa con esattezza quando – avevano iniziato a riscrivere l’Eneide, proprio a causa di quel finale tanto improvviso e disorientante. Siccome l’opera era incompiuta, avevano aggiunto un tredicesimo libro fittizio, in cui Enea sposa Lavinia e si stabilisce nel Lazio, fondando la sua prima città. Insomma, i romani cercano di dare un lieto fine al loro eroe, inventandosi che fosse quello il vero desiderio dell’autore. 

Qui ingigantisce ancora di più la figura di Virgilio, un giovane timido, che i poeti più vicini ad Augusto prendono in giro. Il più grande poeta di tutta la storia di Roma, che riassume la sua vita in tre righe: qui sono nato, qui sono morto, qui sono sepolto, ho parlato di tre cose. Eppure i posteri lo considereranno un potente taumaturgo, uno stregone buono, capace di fermare le eruzioni del Vesuvio e curare gli animali malati. 

Secondo la tradizione, i suoi versi erano tanto colmi di potere da essere investiti di capacità profetiche. Per secoli fu diffusa la pratica delle “sorti virgiliane”: la credenza che fosse possibile aprire l’Eneide, leggerne qualche verso, e vederci scritto il proprio futuro. È così che Adriano ottiene rassicurazione che sarà scelto come successore di Traiano, perché il libro gli offrirà un verso in cui si parla di glorie future. Mentre Carlo I d’Inghilterra, trovandosi sotto agli occhi la maledizione lanciata da Didone, ha il presentimento della propria morte violenta e prematura; e in effetti Cromwell lo farà decapitare. 

Non solo. Virgilio è il tramite tra la classicità e la cristianità. È il poeta che i seguaci di Gesù sentono più vicino a loro. Neppure la dottrina cristiana può fare a meno di Virgilio. Nel Medioevo viene letto nelle scuole per insegnare la grammatica latina, la lingua della liturgia; e viene citato anche come esempio di retorica e di filosofia etica. Non a caso Dante lo volle al suo fianco negli Inferi: perché era considerato l’uomo più saggio di tutti i tempi. 

L’Eneide era vista come la somma dell’intera conoscenza umana, e dunque si pensava di poter ritrovare nei suoi versi anche l’etica cristiana, quella della pietà e della compassione, credendo che Virgilio l’avesse già intuita; così come aveva intuito l’avvento di Cristo, profetizzando nelle Georgiche la figura del “puer”, del bambino che verrà a cambiare la storia. 

Sant’Agostino confessa che leggendo il libro di Didone non è riuscito a trattenere le lacrime, che la forza drammatica della storia è riuscita a distoglierlo dalla missione che si era dato, il distacco dalle cose terrene. La carica tragica dell’episodio è stata colta in decine di opere teatrali e liriche. Nei “Troiani” di Berlioz dopo una notte d’amore tra i due tuona sul palco la voce di Mercurio, che grida tre volte: Italia! E l’aria del lamento di Didone è considerata il capolavoro di Purcell (“Didone ed Enea”), un finale malinconico, più intimo e sofferente che violento ed enfatico: «When I am laid in earth / May my wrongs create / No trouble in thy breast; / Remember me, but ah! / Forget my fate». Quando giacerò nella terra, possano i miei errori non turbare il tuo animo. Ricordami, ma dimentica il mio destino. 

Per questo un viaggio nella Roma antica e nella sua eredità deve partire dall’Eneide. Perché è un’eterna fonte di ispirazione, che parla a ogni uomo e può rivelargli qualcosa su sé stesso. 

Il Colombo che arriva nelle Americhe viene paragonato a un nuovo Enea, che giunge per mare da terre lontane e assoggetta i popoli locali per fondare una nuova, più grande civiltà. Ma in altre epoche i troiani sono stati considerati il simbolo dell’imperialismo. Oggi, nell’era dei migranti, Enea è pensato come un profugo, cacciato dalla sua patria a causa della guerra, che cerca disperatamente una terra che lo accolga, ma viene ogni volta respinto: così i troiani sono costretti a lottare sempre per il loro posto nel mondo. 

Non solo Dante; anche Petrarca, Ariosto, Tasso guardano a Virgilio. L’Eneide è il modello del romanzo e del poema cavalleresco, fin dai primi versi, «arma virumque cano», canto le armi e l’uomo; «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto» è l’inizio dell’Orlando Furioso. Ma l’influenza di Virgilio è fortissima in particolare nel mondo anglosassone. 

I padri fondatori americani citano spesso l’Eneide nelle loro lettere. Lo fanno Franklin, Jefferson, Hamilton: anche loro si ritrovano a dover costruire l’unità nazionale dopo un periodo di conflitti esterni e interni, a dover creare una grande nazione dalle avversità. Dopo la prima guerra mondiale, invece, l’enfasi viene posta sull’Eneide come un’epica contro la guerra. 

Shakespeare attinge da Virgilio come fonte per la mitologia classica. Enea e Didone sono il modello per il suo Antonio e Cleopatra. Enea è la guida morale di ogni eroe romano che mette in scena. E Shakespeare definisce l’Inghilterra «like little body with a mighty heart», un piccolo corpo con un cuore valoroso, proprio come Virgilio descrive le api: «Ingentes animos angusto in pectore versant». 

Tennyson si ispira a Virgilio per comporre un poema sul mito delle origini della monarchia britannica, “Idylls of the King”; come Virgilio, è in bilico tra il celebrare l’impero e ammettere quanti lutti comporta. E gli dedica una poesia: «Tu che sei maestoso nella tua tristezza / per il dubbio destino del genere umano… Ti saluto, Mantovano / io che ti ho amato fin dai miei primi giorni / detentore dell’opera più grandiosa / mai plasmata da labbra d’uomo». Nel “Paradiso perduto” Milton si rifà all’Eneide per contraddirla: sfida la concezione dell’impero infinito dei romani, del loro diritto di regnare sulle genti, per soffermarsi invece sul dominio della religione cristiana. 

Eliot definisce l’Eneide il classico dell’Europa, il filo conduttore della letteratura occidentale, perché varia talmente registro, tematiche, tono, che va a toccare diversi generi, e dunque li influenza tutti. Per questo la Società Virgiliana sorge dalle rovine di Londra devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale: perché i letterati guardano al proprio passato, alla massima espressione dell’animo europeo, per ricostruire la propria identità frammentata e sconvolta dal conflitto. Anche quando non è citato, Virgilio è presente; perché è tanto incastonato nella cultura occidentale che non se ne può prescindere. Tutti l’hanno studiato, fa parte del bagaglio culturale di ogni tempo. 

Quel che rende un’opera un classico, però, non è solo l’importanza storica, o l’impatto letterario. È la sua capacità di parlare sempre a nuovi lettori, di emozionarli, di rappresentare le loro sofferenze e le loro esperienze. Dunque sono il tormento e i contrasti del personaggio di Enea, il suo essere al contempo profugo e conquistatore, a rendere l’Eneide un’opera universale, soggetta a continue reinterpretazioni, e dunque eterna. E anche la nostra storia non poteva che cominciare da Virgilio. A maggior ragione dopo che sul memoriale dell’11 Settembre a New York è stato scritto un verso dell’Eneide, tratto dalla storia di Eurialo e Niso: «No day shall erase you from the memory of time»; nessun giorno vi cancelli dalla memoria del tempo.

Da “Quando eravamo i padroni del mondo. Roma: l’impero infinito” di Aldo Cazzullo, HarperCollins, 320 pagine, 10,99 euro

© 2023 Aldo Cazzullo

© 2023 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

Prima edizione HarperCollins settembre 2023

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