Gli intoccabiliQuel tempo ormai perduto in cui prendere un taxi era un piacere

I tassisti di oggi sono già stressati appena salgono in macchina e affrontano la giornata col coltello tra i denti. Eppure non è sempre stato così. Quando i taxi erano gialli e si consultava ancora lo stradario, i "tassinari" erano gentili alleati e non nemici. E la mancia la si dava volentieri

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Eppure c’è stato un tempo a Roma, ma ovunque in questo Paese, nel quale prendere un taxi, o un tassì come si diceva, era un vero piacere. Ci aggrappiamo ai ricordi, nell’inferno di oggi, giornata di sciopero corporativo dei taxisti, la categoria che sta rapidamente scalando le posizioni della classifica dei più detestati, protagonisti in negativo di un servizio pubblico che è diventato una trappola, i nuovi untouchables che non devono chiedere mai perché tutto gli è dovuto. 

Non era così. Quando l’Italia era in bianco e nero c’erano le fermate dei taxi, si chiamavano per telefono, talvolta non rispondeva nessuno ma se il conducente c’era dopo tre minuti arrivava. «Dove la porto, dottore (o signore)?», ed era un bel modo di attaccare, gentile, come fare una nuova conoscenza. Un alleato, non un nemico come oggi. 

La vettura pulita, a posto, quei bei taxi gialli Fiat o Alfa Romeo o Lancia di tanti anni fa, ci si accoccolava se il tragitto era lungo oppure si stava all’erta se si aveva fretta, il tassista ne capiva subito l’entità: e che bello che era andare piano, innestata la quarta ma a bassa velocità, la classica guida dei tassisti per non consumare benzina, la tranquillità di un taxi notturno con il ticchettio, che oggi non c’è più, del tassametro e tutt’al più una musica a basso volume, se la volevi (te lo chiedeva), non gli urli delle radio sportive di oggi, «ahò, c’hanno fregato er  gol». E poi lui, il tassinaro, come si dice a Roma, di solito un uomo di una certa età, tranquillo, esperto, le mani sicure sul volante, il cambio di marcia perfetto: eccolo lì magari con un berretto sulla testa per contrastare spifferi e colpi d’aria ma anche per marcare un contegno da professionista.

Si partiva in silenzio. Nessuno sa spiegare perché certe volte si accendevano i discorsi tra conducente e passeggero e altre no: la cosa fondamentale è che lui, il tassista, capiva subito se avevi voglia di parlare o meno, e se tu cominciavi lui ti veniva dietro qualunque fosse l’argomento, seguiva ma senza importi quella visione del mondo, per lo più catastrofica, come fanno i tassisti di oggi che ce l’hanno con tutti, dal sindaco in giù, e che sgranano il rosario del qualunquismo e della resa incondizionata al luogo comune.

Già stressati appena salgono in macchina, affrontano la giornata col coltello tra i denti, e vanno anche capiti da questo punto di vista ché guidare ore e ore in mezzo alla giungla d’asfalto che è diventata Roma, ma anche Milano, distruggerebbe il sistema nervoso di chiunque. Imprecano, i tassisti di oggi, più dei loro padri di ieri. La parolaccia ogni tanto sfuggiva anche a questi ultimi, intendiamoci, ma era più un caso limite che la prassi. Oggi capita spesso di essere trattati male. Si bestemmia spesso. È raro un tassista gentile, per lo più è imbufalito come se fosse colpa tua il traffico o l’improvviso senso vietato.

Una volta, in quei tempi là, non era così. Il tassinaro era il novantanove per cento una persona gradevole se non gioviale: amava Roma, e correrci dentro, specie di sera, quando c’è poca gente in giro, e sapeva tutto della città, del suo respiro, del suo intrico di strade e stradine. E dunque ti portava quasi cullandoti dall’altra parte di Roma facendo talvolta il giro più lungo per fare qualche soldo in più, peccatuccio veniale, ma anche questa è una mezza leggenda perché più corse riusciva a fare e meglio era, mentre vero è che qualche volta si smarriva è quasi vergognandosene tirare fuori le mitiche Pagine gialle (lo stradario) per raccapezzarsi in una buia e lontana periferia dove non era mai stato. 

Se si cominciava a chiacchierare aveva un piacere particolare a raccontare la sua vita di molisano o calabrese arrivato decenni prima nella Capitale, una vota difficile ma onesta, pulita, i figli che studiano grazie a quel tassametro, del piatto di pasta che lo aspettava a casa; meglio ancora ma sempre più rari i tassisti che conoscevano i sanpietrini e i lampioni, al tempo erano spesso di sinistra, e quando questa vinceva le elezioni, cinquant’anni fa, suonavano i clacson. Se intuiva che non era aria di chiacchiere rispettava il tuo silenzio e lo imitava, fino all’arrivo. La mancia la si dava volentieri: «Grazie, dottò, buonanotte».

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