È tempo di tartufo: il 31 agosto si era chiusa la stagione del nero estivo e oggi, a ottobre inoltrato, possiamo affermare essere iniziata quella del tartufo bianco, accompagnata dall’inaugurazione della nota e blasonata Fiera del Tartufo Bianco D’Alba. Quest’ultima è la specie più pregiata, la più ambita nonché l’unica a non poter essere coltivata. Infatti, è la pianta a cui si lega a poter essere coltivata, o ancora meglio semi-coltivata.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di spiegare come nasce il fungo. A differenza di altri, questa tipologia di fungo è ipogeo, si sviluppa cioè non alla luce del sole ma sottoterra. In quanto eterotrofo non è in grado di mettere in atto la fotosintesi clorofilliana e produrre il nutrimento per sé stesso e pertanto, per formarsi e sopravvivere, crea una simbiosi con una pianta collegandosi al suo apparato radicale attraverso un intreccio di filamenti chiamati ife (micelio) formante a sua volta un complesso strutturale detto micorrize. Attraverso il micorrize, il tartufo riesce a trarre minerali e altre sostanze nutritive dalle radici della pianta e quindi a crescere e vivere.
Tuttavia anche la pianta ospite ottiene dei benefici dal rapporto con il fungo, a partire dall’ampliamento della sua superficie assorbente grazie all’espandersi dell’apparato delle ife, il micelio, con una capacità di estrazione dell’acqua superiore dieci volte rispetto a quella delle sue radici. Ancora, il tartufo riduce l’attacco di patogeni a quest’ultime e produce un odore intenso e penetrante che attira animali, insetti, specie selvatiche che, nutrendosi di lui, andranno a loro volta a diffondere le spore altrove, contribuendo alla riproduzione della pianta.
Quando si parla di tartuficoltura si intende la pratica di scegliere piante appartenenti alle specie forestali e “micorrizarle”. Sono diverse e vengono selezionate in base all’ambiente in cui verranno poi immesse: carpine nero, leccio, roverella, tigli, nocciole in collina, farnia in terreni sassosi, il cerro in montagna. Una volta individuata la specie giusta, il seme viene inserito su un letto di semina certificato dall’ente forestale non proveniente da foreste con pollini stranieri. Questo viene coltivato su substrati sterili e controllati, per evitare che le radici della pianta che crescerà vengano a contatto con le micorizze di altri funghi presenti naturalmente nell’ambiente che andrebbero a combattere quelle della specie ipogea.
Dopo due mesi, l’apparato radicale delle piantine cresciute viene inoculato con le spore della specie precisa di tartufo che si vuole ottenere. Le piante vengono poi interrate in piccoli vasetti e successivamente sottoposte nuovamente al processo di contaminazione. Dopo un anno, le spore hanno colonizzato adeguatamente le radici.
Prima di dare il via libera alla vendita, le piante devono essere sottoposte a un test di idoneità forestale, a un controllo fitosanitario e a una prova di avvenuta micorizzazione. Ottenuti i rispettivi certificati, queste possono finalmente essere acquistate e sistemate nel terreno finale di produzione, dove proseguiranno il percorso di simbiosi con il tartufo senza alcun altro intervento umano.
Quando poco sopra abbiamo parlato di semi-coltivazione è perché la tartuficoltura si occupa soltanto di innescare un processo che continuerà poi secondo natura. Oltre al rapporto simbiotico tra albero e tartufo, rientra al suo interno anche la relazione tra cavatore e cane, anch’essa a sua volta intima e profonda. Due partner dal carattere simile, ma non uguale, con i loro segreti e codici e con un unico obiettivo: cercare, scavare, trovare e raccogliere il prezioso frutto, senza che il cane lo danneggi, sgranocchiandolo.
Ciò che avviene in un campo con piante già micorizzate non è poi tanto diverso da quanto succede in uno non preparato. Una tartufaia coltivata è diversa per altri motivi: la disposizione degli alberi è più lineare e organizzata, pensata per facilitare la caccia, si conoscono i punti esatti dove sottoterra è cresciuto il tartufo e al suo interno le date stabilite dal calendario di cava possono non essere rispettate nei minimi dettagli. Se si trovano alcuni esemplari al di fuori dei limiti temporali, un cavatore li può raccogliere senza andare incontro all’infrazione di leggi penali.
Prima di queste agevolazioni bisogna però prendere in considerazione la tartuficoltura in quanto pratica benefica per l’ambiente. Se andiamo oltre le diverse fasi e certificazioni, il risultato finale è di per sé aver piantato nuovi alberi, alberi che produrranno ossigeno ed estrarranno anidride carbonica dall’atmosfera. Il fatto che si tratti di una semi-coltivazione con un preciso studio e cura del terreno finale prevede inoltre una pulizia e controllo di quest’ultimo, contribuendo così alla prevenzione degli incendi e alla lotta al dissesto idrologico.
Urbani Tartufi è oggi leader nella raccolta e trasformazione del pregiato fungo e suo principale fornitore agli Stati Uniti. L’azienda umbra di Scheggino fondata 170 anni fa, dopo una lunga serie di ricerche, studi e investimenti ha dato vita a Truffleland, una società realizzata col fine di creare nuove tartufaie. Lavorando con la coltivazione delle piante già inoculate, il progetto è stato pensato per accompagnare gli agricoltori in ogni fase della filiera, dalla semina al prodotto finito. Purtroppo la produzione naturale del fungo è in forte calo, per via del cambiamento climatico, dell’andamento delle precipitazioni, per l’abbandono della montagna e l’infittimento dei boschi dovuto alla scomparsa della pastorizia, per l’eccessivo sfruttamento da parte dell’uomo delle tartufaie.
La tartuficoltura rappresenta una via sostenibile ed ecologica per preservare la biodiversità del territorio e delle sue specie identificative, quale il tartufo, con l’obiettivo di aumentarne la produzione nel giro di cinque anni, senza impattare sull’ambiente, ma compensando con l’assorbimento di C02 da parte delle nuove piante. Oltre a quelle coltivate per entrare in simbiosi con le diverse varietà di tartufo nero, Truffleland produce anche esemplari (salice, pioppo e farnia) micorizzate con il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico), non per la vendita ma per la sperimentazione in campo. A oggi i risultati ottenuti non si sono rivelati tali da poter pensare alla coltivazione della pregiata specie del tartufo, almeno non ancora. A questo punto la domanda sorge spontanea: siamo proprio sicuri che l’agognato tartufo bianco non possa essere coltivato?
Immagini courtesy Urbani Tartufi