Proprio ora che la tendenza low alcol sembra aver invaso definitivamente i banconi dei bar, Velier – azienda genovese che dal 1947 importa e distribuisce liquori e distillati – lancia il progetto culturale Sipping 2.5 che si propone di riavvicinarli all’alta ristorazione, completando l’esperienza gastronomica con un tassello che le appartiene di diritto. E lo fa attraverso con un nuovo calice, progettato da Luca Gargano e Grégory Neisson per esprimere al meglio il concetto della mezza dose – 2,5 centilitri per l’esattezza – “alcolicamente” equivalente a dieci centilitri di vino. A fine pasto il consumatore può scegliere di rinunciare a un calice di rosso in favore di un distillato di pregio, con una spesa ragionevole; al contempo ristoratori e baristi possono fregiarsi di bottiglie rare senza rischiare di abbandonarle sullo scaffale. Questa è stata la premessa del dialogo che ha acceso la Tavola Spigolosa dedicata al mondo dei distillati.
In un certo senso è un ritorno alle origini, perché «nel nostro Paese il distillato è diventato grande a tavola», ricorda il mixology manager di Velier Angelo Canessa. Negli anni in cui i grandi whisky single malt sbarcarono in Italia, insieme ai primi grandi rum, furono gli osti, i sommelier e gli chef in prima persona a proporli al tavolo. E adesso che sono stati gettati nell’oblio dalle lunghe degustazioni di vini, o addirittura si ritrovano avvolti in un’aura di timore generata dall’incapacità di bere responsabilmente senza rinunce, spetta proprio alla ristorazione riportarli in auge. E può farlo trovando loro un posto nel pairing alcolico, oppure direttamente nel piatto.
La cucina internazionale è piena di esempi ben riusciti, ma forse è giunto il momento di superare il cocktail di gamberi, il filetto al pepe verde e il babà per offrire ai distillati qualcosa in più di una comparsata fortuita in carta, che si tratti di una correzione, una flambata o una bagna alcolica dal piacevole gusto rétro. E se non tutti i ristoranti sono in grado di creare un percorso creativo e coerente di cui i distillati possano essere i protagonisti indiscussi, un menu degustazione all’italiana di “sole” quattro portate potrebbe anche bastare per rilanciarli: antipasto, primo, secondo e dolce concedono il tempo di indugiare nel dopocena in compagnia di un buon calice, magari in uno spazio studiato ad hoc per comunicare le potenzialità esperienziali di questi prodotti alle nuove generazioni.
«I nostri nonni erano abituati a consumare alcol più spesso e (inconsapevolmente) meglio», osserva il giornalista Carlo Carnevale. Ma quei rituali, con i loro luoghi, nel tempo sono venuti meno. E per risvegliare la magia dei bar di paese, quelli con il bancone di zinco e trenta edizioni di whisky sul frigo del latte, non è sufficiente dimezzare le dosi: serve un grande oratore, che conosca il prodotto e sappia raccontarlo con la passione che ci metteva il barista di fiducia orgoglioso di aver scovato una bottiglia rara, o l’oste di campagna della Bassa Parmense che era riuscito a farsi dedicare un’etichetta di rum.
La retorica va però cucita sui tempi (stretti) del consumatore di oggi, la cui soglia di attenzione è sempre più bassa: spiegare dettagliatamente il processo di distillazione può rivelarsi controproducente, soprattutto con una platea poco preparata, che magari reputa un gin tonic più alcolico di un calice di vino o si sorprende nell’apprendere che anche “l’amaro dal sapore vero” contiene lo zucchero.
Ed è qui che si mette alla prova l’empatia del servizio, quella sensibilità del barman esperto che sa intuire (e sfruttare) curiosità e lacune per creare un momento di intrattenimento. «Da parte nostra ci vuole impegno a divulgare le nozioni con modi e linguaggi che siano alla portata di tutti» sottolinea Alberto Piras, sommelier del ristorante Il Luogo di Aimo e Nadia a Milano. «E quando il cliente diventa più colto il mercato si allarga, proprio come è successo con la cucina» conferma l’executive chef Alessandro Negrini.
Se grazie ai talent show lo spaghetto al pomodoro è divenuto troppo semplice persino per la casalinga di Voghera, lo stesso non vale per il mondo della miscelazione e della distillazione. Per quanto sia comprensibile la volontà di non celebrare l’alcol in televisione per via degli innegabili effetti negativi sulla salute (in caso di abuso), «come è possibile insegnare il “bere consapevole” senza parlarne?» contesta Rama Redzepi, bar manager presso il Grand Hotel Fasano di Gardone Riviera. Condividere la conoscenza è stato fondamentale per attrarre i clienti nel bar di un hotel di lusso: ci sono volute piccole masterclass dedicate, accompagnate da veri e propri volantini pubblicitari, per rendere quel luogo “accessibile” agli ospiti, sia interni che esterni alla struttura.
Per fare cultura, compatibilmente con l’impazienza del consumatore moderno, è però necessario rallentare i ritmi del servizio tipico dei “secoli bui del bartendering”. Dopo anni di tequila bum bum e chupiti rum e pera ingurgitati distrattamente nel vortice dell’eccitazione, la degustazione liscia sta tornando ad avere una nuova dignità a partire dal racconto, ma non solo.
Quando si parla di mixology bisognerebbe prendere esempio dal mondo della cucina, che è stato capace di trascendere i piatti della nonna – oggettivamente difettosi per quanto confortanti – anche per merito della divulgazione in tv e sui social network. «Il barman è ancora legato ai monumenti del passato, eretti su ricette costruite per aggiustare distillati imperfetti», commenta Francesco Bonazzi, bar manager del Mag Cafè di Milano. È giunto il momento di evolversi e superare la logica del “si faceva così”.
La qualità deve tornare a essere centrale tanto nel bicchiere quanto nella comunicazione, complice un approccio all’alcol che si sposa con il piacere della bevuta, parte integrante della quotidianità e della convivialità italiane. E così il sogno è quello di tornare a commuoverci davanti allo spot di un whisky che riposa nelle botti di sherry almeno sette anni – nel calduccio del suo letto a baldacchino – prima di incontrare una bottiglia; o innamorarci nuovamente del liquore più vecchio del mondo, di cui solo tre monaci francesi conoscono la ricetta esatta. Perché quando alla “sostanza” si aggiunge un pizzico di poesia, bastano poche gocce per vivere un’esperienza memorabile.