Pressappoco le reazioni all’arresto di mezza cerchia familiare di Aboubakar Soumahoro hanno questo segno e fondamento politico-giuridico: «Visto? Ve l’avevamo detto che erano negri!». Vale la pena di ricordarle, dopo un anno e sulla scorta degli ultimi sviluppi, le belle requisitorie di allora sul «talentuoso ivoriano», le mute di cani del giornalismo d’inchiesta attaccate ai polpacci del buffone con gli stivali infangati, le steppe di reportage sul rogito della casa firmato con il sangue dei migranti sfruttati e le chilometriche coltivazioni degli editoriali a commento delle borsette di lusso della moglie e delle mutande griffate della trisnonna.
Perché tutta quella bella roba si ripropone oggi, ma in versione processualmente attrezzata, alla luce dei provvedimenti di arresto che non per caso, ma pour cause, sono adoperati a riprova dell’indegnità morale del «parlamentare immigrato» che non poteva non sapere e ciò non ostante rifiutava di ripudiare la moglie, continuava a prendere lo stipendio e non chiedeva scusa per aver lasciato maltrattare gli immigrati in un Paese che notoriamente e da sempre li tratta benissimo.
E questo era forse il tratto più osceno di quella cagnara: l’imputazione a Soumahoro di aver lasciato i migranti a languire nei lager, l’accusa mossa dagli stessi che impugnano il rosario chiedendo che siano ributtati in mare in nome di Gesù Cristo o mossa dagli altri, anche peggio, anche più incarogniti, anche più mascalzoni, i democratici del Porcaio Unico Televisivo che allargavano le braccia davanti all’inoppugnabilità delle accuse perché venivano persino dai braccianti di colore, tipo «ho tanti amici ebrei!».
Naturalmente chi (eccomi) osservava il tratto distinguibilmente razzista di quella inguardabile scena era investito dai berci dei «Liberali per il ku klux klan» e dalle spataffiate di «Mani pulite dell’immigrazione» secondo cui no, figurarsi il razzismo, no, figurarsi il pregiudizio, noi bianco giallo o nero guardiamo solo le notizie, noi guardiamo solo i reati: e pace se era abbastanza inedito un simile casino sul signor Tizio colpevole di avere la moglie neppure indagata, pace se non si era mai visto niente di simile sul signor Caio co’ la soscera trafficona, pace se in un caso diverso non sarebbe stato né in cielo né in terra quel processone a reti unificate e a editoriali sull’attenti, pace se a nessun Sempronio era mai capitato di doversi scusare in prima serata e di essere convenuto alla sbarra del giornalista democratico che gli chiedeva «Ma a sua moglie gliel’ha detto che è una sporcacciona?», «Ma lo riconosce davanti agli italiani che la sua è una famiglia di delinquenti?», «Ma lo sa che tanti africani come lei se la passano male mentre lei e la sua famiglia ve la spassate sulla loro pelle?».
Tutto così, pressappoco, con il prosieguo di urli e fischi dei colleghi parlamentari quando il deputato nero prendeva la parola alla Camera senza fare quello che doveva, e cioè starsene a cuccia e tenere gli occhi abbassati dopo lo scandalo di cui si era reso responsabile facendo finta di aiutare i poveracci fortunatamente tutelati, invece, dalla rete di assistenza del ceppo italico.
Per non dire del merito processuale, chiamiamolo così. Il garantismo amical-perimetrale che sbraita quando la giustizia lambisce la gente dabbene e poi, vedi tu la combinazione, si fa nebbia quando una misura cautelare – dopo un anno! – è disposta a indispensabile contenimento del clan Soumahoro: sgominato il quale, finalmente, gli immigrati potranno tornare a essere affidati alle cure esclusive del circuito «prima gli italiani».