Un’azienda statunitense si rifiutava di pagare un fornitore del Bangladesh, sostenendo che la consegna non era conforme alle aspettative. La somma di denaro in gioco era irrisoria per gli standard statunitensi, ma in Bangladesh poteva sfamare una famiglia per una settimana. Il fornitore aveva intentato un’azione contro il cliente. Ora stava a Zara Khan esaminare le prove, ascoltare le argomentazioni delle parti e giudicare.
Ma Khan non era una giudice: era un’agente di risoluzione delle controversie che lavorava per un’importante piattaforma commerciale digitale. Non aveva alcuna formazione legale vera e propria. Veniva da un ambiente piuttosto modesto e aveva lavorato come assistente virtuale prima di ottenere questo incarico temporaneo. L’azienda tecnologica l’aveva istruita sulle leggi del proprio mercato e le aveva insegnato in che modo applicarle a diversi tipi di casi. Adesso, ogni giorno, risolveva controversie per un valore di molte migliaia di dollari.
La maggior parte dei casi si risolveva facilmente. Spesso l’accusato non rispondeva a un reclamo entro il periodo previsto di trenta giorni, forse sapendo di essere nel torto. Quando ciò accadeva, il sistema emetteva automaticamente una decisione a favore di chi aveva avanzato il reclamo e sbloccava i fondi da un acconto di garanzia, in cui erano bloccati in attesa della conclusione della transazione. Dopo di che la Khan passava alla segnalazione successiva.
In tal caso, però, il fornitore argomentava animosamente, TUTTO IN MAIUSCOLO. La Khan mise da parte ciò che pensava di questo modo di esprimersi ed esaminò i fatti alla luce delle regole del sito. Doveva gestire i casi in modo meticoloso e imparziale così da salvaguardare la fiducia degli utenti nella piattaforma. Detto ciò, doveva anche portare a conclusione fino a quaranta casi a settimana per massimizzare i suoi bonus di rendimento.
Secondo la procedura per prima cosa doveva cercare di convincere le parti a risolvere la questione amichevolmente. Doveva fare da mediatrice, spiegando a ogni passo le regole applicate, sperando che le parti cominciassero a concordare. In questo caso, però, entrambe mostravano un’accesa indignazione. Un accordo amichevole sembrava improbabile.
Trascorsi trenta giorni senza aver raggiunto un accordo, era giunto il momento che la Khan emettesse una decisione. Se si fosse pronunciata a favore del fornitore del Bangladesh, i fondi sarebbero andati a lui. Se si fosse pronunciata a favore del cliente statunitense e ci fossero state prove di dolo da parte del fornitore, lei aveva il potere di allontanare in permanenza il fornitore dalla piattaforma.
Ma in certi tipi di casi, e questo ne era uno, la decisione della Khan non era vincolante. Entrambe le parti potevano ancora presentare ricorso. Il caso sarebbe quindi passato a un arbitro online con una vera formazione legale, che lo avrebbe studiato per altri trenta giorni prima di emettere una decisione definitiva. I costi dell’arbitrato sarebbero stati divisi equamente in tre, tra le due parti e l’azienda che gestiva la piattaforma.
La Khan non aveva intenzione di far arrivare questo caso all’arbitrato. Poiché la somma di denaro contestata non era enorme, si avvalse di una prerogativa speciale che avevano tutti i giudici virtuali: riconobbe un risarcimento completo a entrambe le parti. Al cliente fu restituito il denaro, ma al contempo fu pagato anche il fornitore. L’azienda che gestiva la piattaforma subì una perdita, ma era comunque piú economico che tirarla per le lunghe. Giustizia, in un certo senso, era fatta.
Le società che amministrano piattaforme digitali come Airbnb, Amazon, Apple, eBay, Google, Uber e Upwork hanno oggi al loro servizio migliaia di persone come la Khan per gestire le controversie. La sola eBay afferma di aver risolto più di sessanta milioni di controversie in un singolo anno. Nel periodo corrispondente, il sistema giudiziario del Regno Unito gestì circa quattro milioni di casi, i tribunali cinesi circa undici milioni e quelli statunitensi circa novanta milioni, la maggior parte dei quali erano infrazioni del codice della strada. In altre parole, oggi probabilmente le società di piattaforme risolvono insieme piú controversie dei tribunali pubblici di tutto il mondo.
Questo non accade solo perché le persone litigano di più su internet, il che potrebbe comunque essere vero. Riflette semplicemente il fatto che tante delle nostre interazioni quotidiane si svolgono oggi attraverso queste piattaforme. Vengono usate per trovare cibo, vestiti, mezzi di trasporto, alloggi, lavoro, droghe, intrattenimento, amici e persino compagni di vita. Le aziende le adoperano per cercare clienti ma anche immobili, fornitori, professionisti freelance, impiegati e idee innovative. I supervisori le usano per gestire i lavoratori e i professori per insegnare.
Secondo uno studio, attualmente il settanta per cento delle aziende degli Stati Uniti è influenzato dalle piattaforme digitali, o perché i clienti vengono a conoscenza di marchi e prodotti grazie alle piattaforme o perché l’intera attività dall’inizio alla fine viene svolta attraverso le stesse. Se saremo fortunati e l’umanità inizierà a prendere piú sul serio la crisi climatica, probabilmente finiremo per passare ancora più tempo a interagire con il mondo da remoto mediante piattaforme digitali.
Sempre più spesso, quindi, le regole che seguiamo nella vita quotidiana sono stabilite dalle società di piattaforme. Hanno potere su ciò che è consentito e ciò che è proibito, su quali persone possono interagire tra loro, su quali tipi di accordi sono possibili e su quali diritti e garanzie si hanno in concreto se qualcosa va male. È quasi come se fossero diventate una sorta di governo digitale. «La Microsoft è una nazione digitale e ha un segretario di Stato?» chiede The Economist. «Adesso la Apple è fondamentalmente un piccolo Paese», afferma The Atlantic. «Chi ha bisogno di un governo quando abbiamo Amazon che fa funzionare le cose?» scherza un editorialista del «Guardian». «Una Nazione di freelance sotto Upwork», proclama un blogger.
Questi confronti riflettono il ruolo centrale che le aziende tecnologiche svolgono oggi nel rendere possibili e nel regolare le nostre attività economiche e sociali. Nel 2020 sul mercato di Amazon transitarono merci per un valore stimato di quattrocentonovanta miliardi di dollari, piú dell’intero prodotto interno lordo della maggior parte delle nazioni. L’azienda guadagnò quasi settantacinque miliardi di dollari in commissioni sui venditori che avevano usato i suoi servizi e infrastrutture logistiche, ben più di quanto molti Stati incassino in entrate fiscali. Gli amministratori delegati delle principali società tecnologiche sono oggi sotto numerosi aspetti più potenti dei capi di Stato della maggior parte dei Paesi.
Ma non tutto va bene in questi Stati virtuali. I loro leader godono di un potere immenso senza un corrispondente livello di responsabilità, e in diversi casi si è scoperto che abusano di questo potere. I dirigenti di Amazon hanno usato la loro visione dall’alto del mercato per identificare i prodotti più venduti, produrne imitazioni e fare in modo che i consumatori acquistassero queste ultime invece degli originali. «Amazon mi ha rubato [un prodotto]. […] Ha visto che realizzavo un profitto e ha deciso di togliermelo e di venderlo per conto suo», si lamenta un commerciante. Le principali piattaforme sono state sorprese a piegare le regole dei loro mercati per favorire gli interni, chiedendo commissioni esorbitanti a chi meno poteva permettersele e rubando affari redditizi a piccoli imprenditori.
Come siamo finiti qui? Internet avrebbe dovuto liberarci dai soprusi delle istituzioni. Avrebbe dovuto eliminare gli intermediari, democratizzare i mercati, dare potere agli individui e creare un nuovo tessuto sociale basato su reti e comunità auto-organizzate invece che su un’autorità dall’alto. «Creeremo una civiltà della mente nel Ciberspazio […] più umana ed equa del mondo che i vostri governi hanno creato finora». È questo che ci avevano promesso i profeti della Silicon Valley. Poi ci hanno consegnato una cosa diversa, una cosa che assomiglia di nuovo molto agli Stati, tranne che per il fatto che questa volta non possiamo votare. Perché le cose sono andate in questo modo? E che cosa si può fare?
“Cloud empires”, di Vili Lehdonvirta, Einaudi, 320 pagine, 24 euro
© 2022 Vili Lehdonvirta
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
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