Il genere dominanteLa propensione del maschio a imperare, in quanto maschio

La violenza contro le donne forse terminerà quando gli uomini che assistono a questi atti brutali la smetteranno di considerare ciò che li differenzia dai propri simili e cominceranno a vedere ciò per cui sono uguali

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Non si comincia un articolo con una citazione, specie se è lunga e tanto meno se non rinvia immediatamente a qualche motto del giorno, ma questa descrive in modo direi ineguagliato tutto ciò che assedia e conduce alla fine la vita di una femmina soggetta alla regola maschile: «Una donna, essendo stata tormentata e battuta, la sera prima, dal marito stizzoso e intrattabile di natura, decise di sfuggire alla sua durezza a costo della vita; e appena alzata, messasi a chiacchierare con le vicine come al solito, dicendo loro sommessamente alcune parole per raccomandare le sue cose, presa per mano una sua sorella, la portò con sé sul ponte, e dopo aver preso commiato da lei, come per scherzo, senza mostrare alcun cambiamento o alterazione, si buttò giù nel fiume, dove annegò» (Montaigne, Saggi, XXIX).

Non ci vuol tanto a capire che non abbiamo fatto molto progresso rispetto a quel trascurabile caso cinquecentesco senza nome. Non ci vuol tanto a capire che sono donne uguali a quella, uguali in quanto donne, magari diverse per censo, per cultura, per religione, ma uguali a quella perché soggette alla stessa violenza esercitata sulle donne in quando donne dal maschio in quanto maschio, sono donne uguali a quella le donne che da sempre e ancora oggi sono affidate a una supremazia altrui che non si basa su nessun particolare e contingente squilibrio familiare, su nessun incidente di coppia, su nessuna malformazione parentale, su nessuna patologia relazionale, ma solo e soltanto sul puro fatto dell’appartenenza al genere dominante, il genere maschile.

L’adolescente pur nata tra computer e cellulari pieni di pop up che propugnano la parità di genere è sola come la donna di cinquecento anni fa su quel ponte quando il fidanzatino si prende il diritto di stuprarne l’immagine nella chat coi compagni. La ragazza pur cresciuta in un ambiente civile e rispettoso continua a ricevere ceffoni e insulti e direttive di vita dall’omologo ben educato in tutto, ma in cui sopravvive, identica a quella millenaria che ancora lo governa, la propensione a imperare in quanto maschio sulla vita di quella creatura. 

La matura donna protetta dall’agiatezza borghese e pure garantita dai rispettosi protocolli di genere è ancora quella che sopporta con gli occhi abbassati il comprensibile momento d’ira sopraffattoria del consorte per il resto impeccabile, per il resto buono, per il resto generoso, per il resto affettuoso, ma inevitabilmente e appunto comprensibilmente esposto al pungolo della propria natura essenziale quando questa è molestata dall’insubordinazione femminile. 

Non è la compostezza incivilita del maschio occidentale del ventunesimo secolo, non è la sua presunta estraneità ai modi violenti e di discriminazione di cui altri si rende responsabile, non è il suo singolare ed eventuale distacco persino morale dai costumi di sopraffazione altrui, che fa diverso il maschio in quanto maschio rispetto ai maschi che invece concretamente maltrattano le donne in quanto donne. Il maschio che si sente diverso, perché non violento, rispetto al maschio che fa violenza su una donna non ha capito nulla. 

Ed è purtroppo, questa, una convinzione assai diffusa. Come se chi non ha schiavi in una società schiavista potesse considerarsi assolto giusto perché in casa propria non ha nessuno in catene; come se potesse non pesargli e non gravare sulla sua coscienza il fatto che suoi simili, esercitando un potere sopraffattorio in nome di una superiorità che egli stesso condivide, anche se non la esercita, di fatto lo accomunano a sé stessi. Come se non fosse un problema “suo”, giusto perché gli schiavi sono di altri.

Vale esattamente per la violenza degli uomini sulle donne. Il maschio tutt’al più soffre per la violenza inflitta a quelle. Dovrebbe soffrire per la violenza che fanno quelli, che è una cosa diversa: perché la fanno in nome di un potere che è anche di chi compatisce le vittime. Potrà forse finire, questa violenza senza fine, quando i maschi che assistono alla violenza dei maschi sulle donne la smetteranno di considerare ciò che li “differenzia” dai propri simili (la delinquenza, la malattia, la pazzia) e cominceranno a vedere ciò per cui sono uguali.

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