Nonostante Tokyo e il Giappone si possano considerare un paese dei balocchi per chi si occupa di cibo, gastronomia e cultura alimentare, l’Italia, con le sue innumerevoli tradizioni e i suoi piatti globali non smette di avere una presa forte e radicata anche a diecimila chilometri di distanza. Non solo le realtà di cucina italiana gestite da giapponesi sono davvero numerose e sempre di migliore qualità, ma il percepito e l’immagine stessa del nostro patrimonio gastronomico si sono evoluti negli ultimi anni e in modalità diverse da quanto si sarebbe potuto prevedere. Proprio perché il fine dining non è mai stato associato al nostro tricolore ma ha sempre più accompagnato la scuola francese, gli chef italiani coinvolti nelle maggiori realtà della capitale giapponese si stanno in qualche modo facendo ambasciatori di una nuova storia. Uno dei casi più recenti e più felici è quello di Antonio Iacoviello, executive chef di Gucci Osteria by Massimo Bottura, inaugurata nel cuore di Ginza nel 2021.
Un ambiente che riflette il gusto della maison fiorentina nella riproposizione di un canone cromatico già noto, dai colori accessi, con accenni al selvatico e all’animalier sempre trattati con grande gusto e qui resi ancora più preziosi. A differenza dell’Osteria che in molti avranno avuto occasione di visitare, la sala ristorante di Gucci a Tokyo è rialzata di diversi metri dal piano strada, illuminata su finestre ad ampia portata, circondata da velluti verde scuro e tovaglie immacolate. Un’eleganza ancora più marcata, più raffinata, chiosata con le porcellane di Ginori e degna di un’atmosfera leggermente sospesa e rarefatta tipica delle sale importanti di questo Paese.
Iacoviello è un giovane napoletano entusiasta della sua posizione, del proprio lavoro e soprattutto dell’opportunità di poter confrontarsi con un contesto così stimolante. «Il Giappone mi piace moltissimo, è un Paese eccezionale – non sempre facile indubbiamente – ma per noi cuochi è una vera fonte di stimoli. Mi piace studiare la cultura locale, vado a spasso per negozi, mercati, sono sempre alla ricerca di nuovi fornitori da Nord a Sud, provo a ricostruire stralci del passato gastronomico di questo Paese per conoscerlo sempre di più e riuscire a rendere la mia idea di cucina efficace con la clientela locale».
Le origini di Antonio si ritrovano a più riprese all’interno dei due percorsi degustazione che, senza indugio, vedono cambiamenti circa una volta al mese. Giocare con le materie prime del posto per poter cucinare l’Italia – cercando laddove è interessante di andare a riproporre gusti molti simili – attraverso prodotti giapponesi, per consentire loro di conoscerne sfumature di gusto diverse e utilizzi ancora non esplorati.
«Ad esempio, in questa ricetta ho voluto riproporre l’idea di una pasta con salsiccia e broccoli, a me cara. Che cosa abbiamo fatto mancando entrambi questi ingredienti? Abbiamo cotto la pasta in un’acqua di pomodoro e trentasei erbe diverse locali sfumate con gin italiano, messo alla base una tartare di wagyu e dei gamberi dolci “amaebi”, guarnito con erbe in crema e fresche e visto che siamo in stagione abbiamo aggiunto una grattata di tartufo. A fianco, una fetta del nostro pane che a tutti gli effetti ricorda quello rustico italiano ma in questo caso è realizzato con sei diverse farine giapponesi, proprio perché la nostra sfida è fare cucina italiana con ciò che troviamo sul posto».
È stato interessante cogliere (mangiando) gli stimoli di un giovane partenopeo trapiantato così lontano da casa ma allo stesso così curioso e determinato nel trovare un approccio nuovo e del tutto inaspettato alla nostra tradizione.
Se Massimo Bottura aveva previsto nel giro dei primi cinque anni di apertura di Gucci Tokyo di arrivare a usare il sessanta per cento degli ingredienti del posto, Antonio ha stravolto le tempistiche arrivando già alla fine del 2022 ad avere il novantasei per cento di ingredienti giapponesi in menu. Solo olio e parmigiano – il tartufo appunto quando arriva il momento – vengono acquistati direttamente dall’Italia, ma per il resto si lavora con fornitori locali, piccoli produttori, sviluppando una ricerca costante e facendosi aiutare dalla gente del posto (la lingua per ora costituisce ancora uno scoglio per molti).
Antonio ci spiega come in Giappone non ci siano quattro stagioni ma 72 micro-stagioni, secondo il calendario giapponese. «Alcuni ortaggi si possono mangiare solo tre giorni all’anno! Questo aspetto mi piace tantissimo e ho subito cercato di approfondirlo. Non conosco i nomi di tutti gli ingredienti, ok, ma assaggio ogni cosa e la collego nella mia memoria. Cerco di pensare a un piatto italiano e cambiarlo con i prodotti local».
Per i più curiosi, è possibile provare la versione giapponese del tortellino più raccontato d’Italia, quello firmato dal grande chef modenese, che però Iacoviello ha ricostruito facendosi produrre una versione autoctona di mortadella e di prosciutto. «Ora non immaginate un prodotto uguale a quello italiano, stiamo parlando di una carne decisamente più secca e che ci facciamo produrre nella città di Nagano, appena a Nord di Toyko. La combinazione di ingredienti che siamo riusciti a trovare ricrea in tutto e per tutto il tortellino di Massimo. Vi sfido!».
E non è sempre e solo questione di ricettazione, perché quando una persona è curiosa quello che riesce a portare nella propria cucina è una creatività ragionata, in dialogo con il contesto in cui si ritrova. Ne sono l’esempio calzante due piatti, un pre-dessert e un dessert che escono radicalmente dall’idea di fine pasto tradizionale per rifarsi invece ad un gusto definito “amai”. Questo termine, che può avere diversi significati, applicato alla sfera sensoriale e gastronomica connota un sapore morbido, indulgente, quindi un dolce che non risulta per niente stucchevole ma decisamente più delicato e raffinato. Da qui, l’idea di Antonio di utilizzare la capasanta in un pre-dessert, lasciandola cruda e accompagnata da un gelato alle foglie di fico con latte di fico, basilico fresco, fichi cotti e acqua di fico. La combinazione di freschezza e dolcezza ponderata è nuova anche per il nostro palato, balsamica, vegetale e marina al tempo stesso.
Il dolce vero e proprio arriva sotto le vesti di un pacchero, cotto volutamente al dente, e coperto da una salsa di sette pomodori diversi. «Il pomodoro giapponese non ha la stessa mineralità di quello italiano e noi non usiamo aglio né olio e anzi, alla base realizziamo una marmellata di pomodoro, mentre il sugo ricorda più una salsa rustica». Un dolce non dolce che segue la scuola Bottura e la interpreta vivacemente, divertendo sensi e gusto.
Gucci Osteria a Tokyo ha ricevuto la prima stella Michelin proprio per la capacità di raccontare un’Italia internazionale, cittadina del mondo, dove il profondo radicamento delle sue tradizioni è perfettamente in grado di plasmarsi a culture lontane, nuovi ingredienti, cotture diverse. Indubbiamente, ci vogliono interpreti capaci e liberi tra eccessivi schemi mentali, coraggiosi nel voler provare a rompere gli schemi anche nei contesti meno friendly nella sfida, lenta ma costante, di educare progressivamente la clientela a una nuova visione della cucina italiana contemporanea. Grazie Antonio e avanti tutta!
Courtesy photo Gucci Osteria