Not only pastaIl fine dining italiano a Tokyo (e oltre), storia di un’emancipazione

Cucinare il nostro Paese senza stereotipi legati alla tradizione non è sempre stato facile. Ma oggi, forse, il vento sta finalmente girando

Come in tanti altri Paesi del mondo, anche in Giappone l’Italia è riuscita a conquistarsi uno spazio non indifferente nella proposta gastronomica dei principali centri abitati. Fino a quando venire nel nostro Paese per lavorare in cucina era fattibile senza troppe restrizioni contrattuali, numerosi aspiranti cuochi si sono imbattuti nelle tradizioni dello Stivale passando anni a imparare i segreti della nostra cucina.

Ho conosciuto un giovane che dopo tredici anni passati in provincia di Cuneo perché affascinato dal Piemonte e dalle sue specialità è tornato a casa con un progetto preciso per il suo ristorante. Oggi Komo è un piccolo counter restaurant con una decina di posti nel centro di Kamakura, un villaggio sul mare a circa un’ora di treno suburbano da Tokyo, in cui Kappa propone bolliti, pasta fresca in bianco e al sugo e una versione rivisitata del fritto misto monferrino.

Le coltivazioni controllate e gli investimenti nell’agricoltura biologica sono sempre più diffuse in Giappone

Solo a Tokyo la presenza di ristoranti di cucina italiana gestiti da persone del posto è altissima e con una storicità alle spalle non indifferente. In questi indirizzi il modello proposto si focalizza molto sulla tipologia e sulla qualità degli ingredienti utilizzati andando a proporre piatti iconici, ben riconoscibili e chiaramente un po’ adattati ai gusti del Paese ospitante. Rispetto a quindici se non vent’anni fa, il canale import-export si è ampiamente rodato, ampliato e strutturato. Il prodotto originale made in Italy ormai non ha più problemi ad arrivare fino a qui e salvo qualche specifica produzione casearia, il meglio delle nostre lavorazioni riesce ad essere spedito in ventiquattr’ore via aerea e arrivare preservando una qualità e freschezza ottimali.

E se i ristoranti italiani con passaporto giapponese sono più che numerosi, diversa è invece la situazione dei cuochi italiani trasferitisi qui per lavoro o imprenditoria legata al settore. In termini numerici, la comunità degli chef italiani in Giappone resta molto meno numerosa rispetto ad altre città europee o alle grandi metropoli americane. Per una serie di barriere culturali, storiche e linguistiche questo Paese in passato non ha avuto modo di accogliere nostri connazionali in abbondanza, ma le cose stanno cambiando.

Molti colossi del lusso internazionale così come le più grandi catene alberghiere hanno (finalmente) sposato la cucina italiana come biglietto da visita delle loro sedi asiatiche lavorando a tutti i livelli, dalla cucina d’autore, quella regionale, fino alla pizza. Troppo a lungo, infatti, l’unico modello di fine dining concepito e accettato è stato quello francese. Le grands tables di Francia sono arrivate a Tokyo potendo farsi forza della loro storia e della propria identità senza dover adattare più di tanto la proposta.

Dalla scelta degli ingredienti, ancora oggi molto preziosi e poco comuni nelle cucine locali ai piatti proposti, l’haute cuisine gode in Giappone di grande lustro e appeal tanto che il costo di questa tipologia di ristoranti è sempre stato elevato senza mai particolarmente spaventare. Di contro, il percorso in cui ha dovuto imbattersi la gastronomia italiana è stato più tortuoso e forse in certe città minori è ancora così.

Luca Fantin, Executive Chef del Bulgari Hotel di Ginza a Tokyo, è arrivato dieci anni fa nella capitale. «All’epoca non c’erano tutte le insegne legate alla grande ristorante italiana che si trovano ora e il modello prevalente era la trattoria. Noi italiani siamo sempre stati questo, specialmente qui, ovvero pasta, pizza e spaghetti al pomodoro. Le specialità conosciute si contavano sulle dita di una mano e lo stereotipo della cucina era più proiettato verso semplicità, immediatezza e prezzo modico. Mi ci sono voluti anni di lavoro per far comprendere a fondo la mia idea di cucina e allo stesso tempo far passare un pensiero più ampio. Oggi finalmente siamo riusciti a far capire che anche in Italia possiamo proporre una ricerca, una ristorazione fine dining di assoluto livello, di grande tecnica e gusto, che non ha nulla da invidiare alle altre».

Uno scatto del Bulgari Bar di Ginza, Tokyo

La nostra tradizione risulta in questo senso molto affine a quella giapponese in quanto il cuore del lavoro è, per entrambe, la materia prima. Così come avviene generalmente nelle esperienze di sushi omakase l’ingrediente è celebrato e valorizzato al massimo ma processato – quindi coperto – il meno possibile. Anche per un discorso di digeribilità e leggerezza complessive.

Se oggi un Niko Romito viene chiamato a sviluppare il comparto ristorazione del nuovo Bulgari Hotel Tokyo, se Carmine Amarante guida saldamente da tre anni le cucine di Giorgio Armani in piena Ginza e se Gucci by Massimo Bottura ha ricevuto la prima stella Michelin, questo progressivo aumento di consapevolezza e posizionamento è il risultato (ancora in fieri) di un lento ma consistente cambio di visione verso la cucina italiana.

Daniele Cason, responsabile di oltre dieci outlet di ristorazione differenti all’interno del Mandarin Oriental Hotel nella capitale, è stato il primo e unico chef italiano a proporre un progetto di fine dining legato alla pizza e inserito in un contesto di hôtellerie a cinque stelle. Nel suo counter, aperto pranzo e cena ma con un numero ridotto di posti, propone una degustazione di pizze alla pala realizzate secondo le tecniche di impasto e lievitazione italiane ma guarnite con ingredienti locali. Un bellissimo cortocircuito che non smette di avere successo facendo sedere ogni giorno clienti da tutto il mondo, compresi gli italiani più curiosi.

Uscendo dalla capitale non è altrettanto facile trovare questa stessa qualità e densità di talenti ma l’utenza, la percentuale di turisti e lo stile di vita cambiano radicalmente. Vi sono margini di crescita in questo senso, ma oggi come oggi quello che ci sembra interessante fotografare è proprio l’aumento di awareness che l’Italia gastronomica è riuscita a fare così lontano, esportando modelli di business, sinergie lavorative, competenze e professionalità.

Courtesy immagini Frank From e Tsuchiya

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