La banalità del maleIl preoccupante silenzio delle seconde generazioni arabe sugli orrori di Hamas

I giovani leader delle comunità non stanno condannando il pogrom del 7 ottobre e i crimini del gruppo terrorista palestinese. Il rischio è quello di giustificare sciocchi atti antisemiti, come il post pubblicato sui social (e poi rimosso) da una studentessa di Medicina della Biccoca

LaPresse

Più cresce il numero delle vittime fra i civili nei Territori palestinesi e più aumenta la rabbia fra le nuove generazioni con background migratorio, a rischio di deriva identitaria. Soprattutto per chi ha radici nei Paesi arabi e ha sempre solidarizzato con i fratelli palestinesi. E questo può essere pure comprensibile. Non lo è invece il silenzio fragoroso che c’è stato sin dall’inizio, dopo il pogrom di Hamas, il 7 ottobre. 

Pochi giorni dopo il Sabato Nero, a un convegno organizzato da alcune associazioni delle seconde generazioni, dove hanno partecipato diverse eccellenze impegnate nel campo dell’inclusione, la difesa dei diritti degli italiani senza cittadinanza, la promozione dell’emancipazione, sono stati pochi e lo hanno detto a bassa voce a manifestare rammarico verso le vittime di Hamas, le violenze contro donne, civili e persino pacifisti che si sono sempre opposti al  governo ultranazionalista di Bibi Netanyhau. 

Ancora prima che nelle piazze italiane si ascoltassero cori antisemiti o apparisse l’immagine di Anna Frank con la kefiah, alcuni giovani che non sono cresciuti nel disagio delle periferie ma sono leader e in ascesa nella società italiana giustificavano la “rabbia” di Hamas, come se non fosse un gruppo terrorista che andava distinto dalla popolazione civile da anni ostaggio del governo islamista nella Striscia di Gaza. E anzi qualcuno era pure indignato contro chi invece, avendo le medesime origini, aveva osato dire che non si può andare in piazza per le donne iraniane e poi fare il tifo per i miliziani di Hamas supportati anche dagli ayatollah. Era un sintomo che non doveva essere sottovalutato, forse. Questo accadeva prima dell’entrata dell’esercito israeliano a Gaza. 

Non si può generalizzare, certo, e tanti fra quelli che nelle piazze non ci vanno a manifestare, sanno bene che fino a quando non ci sarà una nuova leadership palestinese e israeliana interessata al rilancio di un progetto di pace, di coesistenza, due stati per due popoli, a pagare il prezzo continueranno a essere i civili. Ma bisognerebbe chiedersi perché sia rimasto in sordina il caso di una studentessa di origini arabe alla facoltà di Medicina della Bicocca che – nella banalità del male che spesso si trova sui social anche per argomenti meno cruciali – il 7 ottobre ha lanciato con crudele incoscienza una storia su Instagram in cui apparivano le immagini agghiaccianti di una sua coetanea in fuga durante il rave, con una frase ingiustificabile: «Run, Zionists, runnnnn», e a fianco la faccina irriverente che ride, le dita alzate in segno di vittoria. Storia cancellata ma rimasta in circolazione da chi l’aveva screenshottata. 

Ed è stato in modo discreto che sono arrivate delle mail di protesta all’ateneo per segnalare il suo gesto social di antisemitismo. Giuliana Adamo, docente di Letteratura italiana e comparata al Trinity College di Dublino, ha riportato il disgraziato episodio e lo scambio epistolare con l’ateneo della Bicocca sulla rivista Nuova Secondaria. «Vi scrivo indignata dopo aver visionato il testo scritto dalla vostra studentessa di Medicina (..) La giovane sorridente avvolta nel velo dovrebbe imparare l’ascolto, il rispetto e l’umiltà. Lei che irride i sionisti, ha idea che poi tanti potrebbero irridere il suo velo e che ad infinutum ciascuno può trovare un modo per irridere gli altri, generando odio? L’università dovrebbe chiederle di scusarsi e impegnarsi a farla ragionare». 

Nella replica dei servizi didattici della facoltà di Medicina dell’ateneo arrivata il 2 novembre si legge: «L’università Bicocca da sempre condanna ogni forma di violenza, sopraffazione, discriminazione (…) Ci dissociamo da qualsiasi affermazione o esternazione pubblica che possa anche indirettamente la violenza o discriminazione di ogni tipo (…) un approccio che adotteremo anche per questo caso che ci ha segnalato e ci ha colpito e preoccupato sul quale stiamo facendo i necessari approfondimenti». 

Un caso, quello di questa studentessa che aspira a diventare un medico, che non ha neanche l’attenuante del disagio sociale. Come abbiamo visto invece nelle diverse proteste in tutte le piazze italiane per la Palestina fra diversi giovani e giovanissimi di origini arabe che abitano le periferie urbane, ci sono stati quelli che hanno pure negato l’attacco del 7 ottobre e accusato Israele di avere creato delle immagini con l’intelligenza artificiale. 

Una minoranza? Ce lo auguriamo, ma nel frattempo la protesta si allarga anche fra chi musulmano non è, non ha radici nei Paesi arabi, ma continua a esprimere la propria indignazione contro la guerra nella Striscia di Gaza, diventata la madre di tutte le battaglie contro il colonialismo di ogni genere e sorta. 

In pochi hanno notato che i Giovani palestinesi d’Italia, nella mobilitazione continua contro la guerra, hanno parlato del 7 ottobre come di una giornata rivoluzionaria in cui «il popolo palestinese ha ricordato al mondo di esistere, ha dimostrato che sono i popoli a scrivere la storia». Alienandosi così le simpatie fra i pacifisti italiani e rendendo ancora più difficile la posizione di chi fra le nuove generazioni di italiani cerca di far capire che Hamas non rappresenta tutti i palestinesi così come il governo ultranazionalista di Bibi Netanyhau non rappresenta tutti gli israeliani. 

Per quanto accelerata dall’uso sincopatico dei social, è una storia che abbiamo già visto in Italia dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001. L’odio che porta odio, la deriva identitaria che fa crescere contemporaneamente antisemitismo, islamofobia, opposti razzismi, islamismo. E nel frastuono assordante, ci chiediamo perché dalle associazioni culturali musulmane, dalle moschee, non arrivi un segno di solidarietà verso duecentoquaranta ostaggi, prigionieri di Hamas. Sarebbe un punto da cui ripartire per non far crollare i ponti in Italia e in Europa dove lo stato di diritto permette di portare in piazza qualsiasi protesta e pure l’antisemitismo.  

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