Immaginiamoci per un attimo un paese dove l’ultima crisi di governo sia avvenuta con le Torri Gemelle ancora in piedi, che da quel momento ha avuto quattro premier (contro i nostri dieci) e sei governi (a fronte dei tredici tricolori), tutto questo senza la possibilità di sciogliere il parlamento e con un sistema simile a quello della nostra Prima Repubblica.
Mentre in Italia si discute sull’ipotesi di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio e sciogliere automaticamente le Camere in caso di sfiducia, c’è il caso opposto della Norvegia, dove il parlamento monocamerale, lo Storting, composto da centosessantanove membri eletti con un sistema proporzionale a sbarramento e con diritto di tribuna, non può essere sciolto in nessuna circostanza. Il sistema è il risultato della Costituzione del 1814, in vigore ancora oggi, la quale, pur utilizzando un procedimento proprio del diciannovesimo secolo, garantisce la presenza di un governo espressione della volontà popolare durante l’intero mandato del parlamento e strumenti in grado di sfiduciarlo. A cambiare, nel corso di oltre due secoli, sono stati il diritto di voto (esteso prima a tutti gli uomini nel 1900 e alle donne fra il 1909 e il 1913), la durata del mandato (passata da tre a quattro anni durante gli anni Trenta) e il sistema elettorale (proporzionale dal 1921).
La chiave di volta di questo sistema è la questione di fiducia, che viene posta sulla figura del primo ministro e non sull’intero governo e solo in caso di presenza di una mozione alternativa. Ci sono stati, come vedremo, casi di dimissioni, generati dal rischio di un voto di sfiducia costruttiva. Il funzionamento di questi strumenti lo spiega il vicepresidente del parlamento norvegese, il conservatore Svein Harberg, al quale sono stati sottoposti due scenari: il primo in cui nessuna coalizione ha la maggioranza assoluta e in parlamento è presente un partito estremista con il quale nessuno intende collaborare, il secondo in cui esiste un partito di protesta che rifiuta la collaborazione con altre forze politiche (ad esempio il Movimento 5 Stelle del 2013).
«Entrambi gli scenari hanno la stessa soluzione», risponde il presidente dello Stortinget. «Dopo il voto, il Re chiederebbe al segretario del primo partito di costituire un governo. Si tratterebbe di un governo di minoranza, è una circostanza comune che caratterizza anche l’attuale esecutivo, che ha un accordo con i Socialisti per quanto riguarda la legge di bilancio, mentre per gli altri provvedimenti possono rivolgersi sia ai Socialisti che negoziare con altri partiti», spiega Harberg. E senza accordi di questo tipo? «In questo caso, anche la legge di bilancio verrebbe negoziata in parlamento. Sarebbe una situazione piuttosto difficile da sostenere e probabilmente il governo si dimetterebbe». E quale sarebbe la conseguenza? «Il premier incaricato avrebbe tempo per negoziare con altri partiti, ma, senza accordo, il Re incaricherebbe il segretario del primo partito della seconda coalizione».
Non si rischierebbe una sfiducia continua? «La sfiducia è qualcosa che lo Storting può indirizzare nei confronti di un ministro o del primo ministro nel caso il parlamento ritenga che abbia avuto un comportamento scorretto, oppure il caso contrario per il quale il parlamento sfiducia il ministro o il premier se non ha fatto qualcosa che, invece, avrebbe dovuto fare». Partendo dall’esempio fatto da Svein Harberg, dopo le elezioni del 2021 è emersa una maggioranza di seggi per i partiti appartenenti al centro-sinistra. Il leader del partito più ampio del blocco, il laburista Jonas Gahr Støre, ha ricevuto l’incarico di formare il governo da parte del sovrano, con l’intenzione di includere ministri del suo partito e dei centristi. Assieme, i due partiti mettono assieme settantasei seggi, nove in meno della maggioranza assoluta, motivo per cui è necessario l’appoggio esterno dei tredici parlamentari del Partito della Sinistra Socialista.
All’opposizione rimangono i quattro partiti del blocco di centro-destra, una parlamentare indipendente, i Verdi e il Partito Rosso, ovvero quello che siede all’estrema sinistra dello Storting. Perchè avvenga una crisi parlamentare, Jonas Gahr Støre dovrebbe subire un voto di sfiducia costruttiva al quale partecipano in maniera favorevole l’intero blocco di centro-destra (con i suoi sessantotto parlamentari) e uno o più partiti del blocco di centro-sinistra, circostanza resa improbabile dalla profonda distanza ideologica fra l’opposizione di centro-destra e i partiti alla sinistra del governo rosso-verde.
Questa circostanza, nella storia norvegese, si è verificata solo tre volte: l’ultima, nel 1963, interruppe brevemente il dominio del laburista Einar Gerhardsen, il padre della patria durante il secondo dopoguerra. Il governo di Gerhardsen dovette dimettersi per lo scandalo dovuto ad una serie di incidenti mortali nelle miniere delle isole Svalbard: in quella circostanza, il Partito Socialista si astenne da una mozione di sfiducia dei conservatori, che quindi insediarono per un mese il proprio governo guidato da John Lyng. L’esecutivo durò poco, perchè, privo dei numeri per governare autonomamente (laburisti e socialisti detenevano comunque la maggioranza dei seggi) il neopremier si dimise. Gerhardsen tornò in carica dopo un mese all’opposizione.
Anche l’ultima crisi di governo non è dovuta a un voto di sfiducia: il premier laburista Jagland promise che si sarebbe dimesso se il suo partito non avesse ottenuto almeno la stessa percentuale di quattro anni prima (la donna che lo aveva preceduto, Gro Harlem Brundtland, anch’essa laburista, disse di lui «Non credevo potesse essere così stupido») e così, nel 1997, nonostante un brillante trentacinque per cento (un calo fisiologico dell’1.9 per cento), Jagland rinunciò a formare un governo anche di fronte ad un centro-destra in frantumi.
La situazione era dovuta anche al fatto che il principale partito del blocco conservatore fosse il Partito del Progresso di Carl Hagen, un movimento populista al quale non era immaginabile consentire di formare un governo. Si raggiunse così un compromesso per un governo di minoranza centrista guidato da Kjell Magne Bondevik formato da Cristiano Democratici, Liberali e Agrari (quarantadue seggi su centosessantacinque) con il sostegno esterno di Conservatori e Partito del Progresso. Bondevik si dimise nel 2000 dopo aver perso un voto parlamentare sulla politica energetica del paese (sul quale però non era posta la fiducia) e al suo posto subentrò il laburista Jens Stoltenberg per il resto della legislatura. Bondevik tornerà al governo dopo una chiara vittoria del centro-destra alle elezioni del 2001.
Cosa può succedere, invece, se il Re (o il Presidente della Repubblica, nel nostro caso) affidasse il governo ad una fazione politica che non gode della maggioranza dei seggi e del sostegno popolare compattando l’opposizione? Questa circostanza si è verificata solo una volta, nel 1928: le elezioni dell’anno prima avevano fornito una maggioranza ad un centro-destra frammentato, questo aveva permesso al premier uscente Ivar Lykkes di continuare a governare con una coalizione di conservatori e indipendenti liberali fino alle sue dimissioni.
In seguito a queste, e in mancanza di un accordo fra i partiti borghesi, il Re si vide costretto ad affidare l’incarico a Christopher Hornsrud, del Partito Laburista che era risultato primo alle elezioni, ma senza la maggioranza assoluta. Diciannove giorni dopo, di fronte a quello che percepivano come pericolo socialista, i partiti di centro-destra si accordarono per un voto di sfiducia costruttiva che sostituì Hornsrud con il governo monocolore di minoranza del liberale Mowinckel.
Per fare un parallelo con l’Italia, nel 2013 Mario Monti avrebbe continuato a governare con pieni poteri dopo il voto e avrebbe potuto essere sostituito dimettendosi (in quel caso Napolitano avrebbe nominato Bersani premier) o da una mozione di sfiducia costruttiva fra due partiti (ad esempio Partito Democratico e Forza Italia quando realizzarono le larghe intese). Stesso discorso per il caos del 2018: se Gentiloni si fosse dimesso dopo la sconfitta del PD, Mattarella avrebbe potuto nominare premier il leader del partito di maggioranza relativa (in quel caso, Di Maio con il Movimento 5 Stelle) magari generando un improbabile accordo fra PD e centro-destra per spodestarlo, oppure al leader della coalizione di maggioranza relativa (il centro-destra, con la Lega per Salvini primo partito), accelerando sulla creazione di un’alleanza giallo-rossa.