La vittoria di Geert Wilders, e del suo Partito per la Libertà, è un evento tutt’altro che banale e non circoscritto unicamente ai Paesi Bassi: il suo successo avrà conseguenze di vasta portata anche alle nostre latitudini, come sottolineato da vari osservatori. Wilders è un sovranista della miglior (o peggior) specie, saldamente anti-europeista, e le sue politiche puntano a una stretta sull’immigrazione, a ridurre il contributo economico olandese all’Unione e bloccare l’ingresso di nuovi membri, tra cui l’Ucraina.
Non è una sorpresa che questa vittoria abbia galvanizzato i «piccoli Trump» europei, come ha scritto Euractiv. Il premier ungherese Viktor Orban non ha esitato a parlare di «vento del cambiamento», mentre la leader del Rassemblement National francese Marine Le Pen ha subito esaltato la «difesa delle identità nazionali». Non poteva mancare anche Matteo Salvini, che ha rivendicato una storica alleanza leghista con il Partito per la Libertà.
Il programma di Wilders parla chiaro: scorrendolo, ci si può imbattere in alcuni capisaldi del sovranismo europeo e in altre proposte che sembrano strizzare l’occhio più allo scontro di civiltà di Samuel P. Huntington. L’agenda di Wilders prevede la fine totale dell’asilo per i rifugiati; il divieto a scuole islamiche e moschee e quello a indossare il velo negli edifici governativi; ancora, il ritiro di precedenti scuse ufficiali per la schiavitù e l’interruzione delle comunicazioni governative in arabo e turco. Ciliegina sulla torta, una forte riduzione del numero di studenti stranieri.
Non che ai partner europei vada meglio. Wilders ha proposto la fine della libera circolazione della manodopera nell’Unione, con l’introduzione di visti lavorativi; l’interruzione del sostegno militare all’Ucraina e il convitato di pietra, il referendum sulla Nexit, l’uscita dei Paesi Bassi dal blocco europeo. E la lotta climatica? Presto detto: fine delle leggi sulla riduzione delle emissioni di azoto, mantenimento delle centrali a carbone e a gas, maggiore estrazione di gas nel Mare del Nord. Niente turbine eoliche, niente pannelli solari. Ritiro dagli accordi sul clima.
Già da questo piccolo assaggio, seppur molto indigesto, si può intuire dove vuole andare a parare Wilders: per fortuna i pesi e i contrappesi della democrazia olandese e della comunità europea difficilmente gli permetteranno di portare avanti questa ambiziosa e inquietante agenda.
Nel suo discorso della vittoria, il leader olandese ha detto: «Vogliamo governare e… governeremo». Tra il dire e il fare ci sono però svariate cose di mezzo: ora infatti si aprirà una fase di intensa consultazione tra i principali partiti, per formare una coalizione di governo. Considerando la situazione, le trattative potrebbero protrarsi per diversi mesi: dopo le elezioni del 2021 ci sono voluti quasi trecento giorni per trovare un accordo.
Le possibili coalizioni all’orizzonte sono diverse: l’ago della bilancia potrebbe essere il centrista Pieter Omtzigt che con il suo Nuovo contratto sociale ha raggiunto venti seggi. Sommati ai ventiquattro del Partito popolare per la Libertà e la Democrazia di Dilan Yesilgoz-Zegerius, potrebbero creare un pacchetto di quarantaquattro seggi centro-liberali. Le decisioni del duo potrebbero spingere la politica olandese in una direzione piuttosto che nell’altra.
Per certi versi, una coalizione con Wilders potrebbe essere una concreta possibilità: tutti e tre i leader hanno fatto campagna sulla necessità di limitare l’immigrazione e si sono detti disposti a chiedere deroghe agli accordi dell’Unione europea sull’accoglienza dei richiedenti asilo e sulle politiche ambientali. Prima delle elezioni, Yesilgoz ha anche indicato che sarebbe stata disposta a governare a fianco di Wilders, ma ha fatto retromarcia nella nottata elettorale.
I punti di contatto potrebbero esserci, a patto che Wilders rinunci alle sue proposte più oltranziste: un’ipotesi da non escludere, considerando che in questa campagna elettorale, il leader sovranista ha mostrato un lato più pragmatico, dichiarando di essere consapevole che per formare un governo siano necessari grandi sacrifici. La Bbc ha scritto che «il suo successo non è dissimile dalla vittoria di Giorgia Meloni un anno fa in Italia. Anche lei ha moderato alcune delle sue politiche più radicali ed è stata premiata alle urne».
C’è poi l’altra opzione: una grande coalizione capitanata dall’ex commissario europeo e leader dei Verdi/Laburisti Frans Timmermans per estromettere Wilders dal potere. Il duo centro-liberale potrebbe concordare con dei partiti più piccoli di sostenere questo schema, anche se i negoziati si preannunciano in salita, dato che Yesilgoz e Timmermans hanno sottolineato più volte le loro differenze in campagna elettorale.
Si è parlato anche di un governo di minoranza, una soluzione estrema: i centristi e i liberali potrebbero concordare un programma con il sostegno esterno di sinistra e destra su diverse questioni. Nel 1982, il Partito laburista ottenne il maggior numero di seggi, ma i rivali di centrodestra finirono a capo della coalizione di governo: l’impressione però è che questa volta difficilmente si faranno i conti senza l’oste e Wilders avrà un ruolo centrale nella formazione del prossimo governo olandese.
In un Paese il cui sistema elettorale frammentato rende inevitabili i governi di coalizione, il consenso popolare in questa fase sembra infatti essersi allineato su un abbandono della «cultura dell’apertura», che da secoli caratterizza i Paesi Bassi. Questo approccio ha contribuito in maniera determinante alla storica ricchezza olandese: dal traffico commerciale fino ai mercati finanziari, la libertà e il senso di apertura al mondo hanno fatto dei Paesi Bassi un polo dell’innovazione europea. A prescindere da quale sarà l’esito delle consultazioni, il sentiment dei cittadini sembra chiaro: se la linea di Wilders è stata associata spesso a quella di Trump, fa specie che l’isolazionismo trumpiano trovi terreno fertile in uno dei Paesi più «globalizzati» al mondo.