Un esordio che sorprende, quello di Alice Valeria Oliveri: “Sabato Champagne”, nella collana diretta per Solferino da Teresa Ciabatti, “i pavoni”. Anita è stata una bambina solitaria, figlia di genitori giovanissimi, spesso dai nonni e molto più spesso affidata alla tivvù per tutto il pomeriggio. Siamo negli anni Novanta – la protagonista ha la stessa età dell’autrice, classe 1992.
Siamo sul crinale di un’epoca pronta a mutare pelle, sia a livello sociale che politico, l’alba della seconda Repubblica che culminerà con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e, a un passo da questo, poco prima, i lustrini della televisione commerciale di Mediaset. Se nonna Rosalia, madre di suo padre, venuta al mondo sessant’anni prima, sembra essere appartenuta a un’epoca lontana e mitologica, così disabituata a covare un vizio o imprimere nella testa un desiderio, così poco avvezza alla libertà, sua nipote Anita cresce invece in un mondo che sembra prometterle tutto e in un palinsesto dove, non esistendo più il monopolio di Stato, c’è spazio per uno scompiglio.
È questa la misura di un romanzo di formazione anomalo perché originale nello schema, e denso nella composizione dei piani, una parabola che si declina lungo l’arco non solo degli anni o delle città e degli amori che la protagonista vive, ma lungo l’asse della televisione che Anita guarda fin da piccola. La disamina minuziosa dei programmi tv di cui tutte le ragazze degli anni Novanta hanno subìto il fascino, si mescola alle tappe di un’esistenza ben precisa, ma che grazie a questo meccanismo drammaturgico diventa lo specchio in cui chiunque può ritrovarsi. Ricorda, quest’esordio così pieno di grazia, di arguzia e di misura, l’esperimento letterario che Annie Ernaux ha fatto con “Gli anni”: romanzo autobiografico ma, allo stesso tempo, ritratto corale di un’intera generazione, quella cresciuta nel dopoguerra, la cronaca collettiva di un mondo che stava cambiando.
Oliveri tesse i capitoli come fossero bussole grazie alle quali orientarsi in un materiale tanto ricco: Solitudine, Curiosità, Nostalgia, Ambizione, Vergogna, Gelosia, Dolore e Futuro. Dentro questo “palinsesto” che accorpa l’intimo e il comune, Oliveri cuce la storia di Anita al fondale davanti a cui questa si consuma, che da semplice scorcio diventa protagonista e contrappunto. A prendere la scena sono i caratteri e le maschere della tivvù commerciale, i quali, visti dallo sguardo analitico di chi li esamina, si restituiscono nella loro essenza archetipica, fasciati da una luce capace di renderli perfino eroici. Nei capitoli dedicati a Jane Austen di “Una stanza tutta per sé”, Virginia Woolf paragonava la scrittrice inglese a Shakespeare per la capacità che entrambi hanno di rendere gli stupidi, gli stolti o i giullari, dei personaggi colmi di bellezza.
Si potrebbe dire lo stesso di questo libro. E così ecco Fabrizio Corona trasformarsi in un eroe tragico, lì dove il fine ultimo della sua storia, trattandosi di una tragedia, è appunto: la catarsi. «Rifiutarsi di conoscerla», scrive Oliveri, «e di capire i moti umani e drammatici che lo hanno portato fino dove è adesso, vuol dire rifiutare il valore della tragedia, del racconto ancestrale che porta in sé il seme della disfatta umana, lo specchio attraverso il quale riconosciamo i più indicibili dei nostri peccati, gli angoli più scuri del nostro desiderio, per metabolizzarli e custodirli in forma sintetizzata nei nostri ricordi, come un vaccino».
Oltre a Corona: “Non è la Rai, “Striscia la notizia”, “Uomini e donne”, il “Grande Fratello vip”, “Temptation Island”, “Amici”, Maria De Filippi e Cologno Monzese, dove Anita per uno scherzo del destino comincerà a lavorare. Sorto sulle ceneri di Cinelandia, dove un tempo si giravano i Caroselli, e dunque sul passato di una televisione in disuso, Cologno è un regno in cui a rincorrersi sono le leggende più assurde, il paese dei balocchi che s’inchina al cospetto dell’enorme torre Mediaset a sovrastare gli studi televisivi, ma che soprattutto s’inchina a lui, il suo fondatore: Silvio Berlusconi. L’uomo che ha capito e forgiato e plagiato la mentalità del nostro paese più di chiunque ricopre il ruolo di deus ex machina delle sorti di un’intera generazione. Guida spirituale delle bambine che, come Anita, sono nate negli anni Novanta saranno dunque le mosse compiaciute e seducenti delle neo-soubrette, le veline o le letterine, e quella voglia scalmanata di prendere la vita con un giro di danza.
Tutto è desiderio, tutto è gioco, sberleffo, divertimento e flusso incontenibili. Chiunque si sia opposto, fra le femministe, le associazioni a tutela dei minori, i cattolici o gli intellettuali, alla mercificazione di quelle bambole seminude che erano le protagoniste minorenni di “Non è la Rai” non ha ottenuto nulla, giacché il varco si era ormai aperto, lasciando le sue impronte per l’avvenire. Oliveri ricostruisce la storia di queste tracce che contengono in nuce l’era successiva, quella di Tik Tok, e le osserva senza un’unghia di alterigia. Non c’è ombra di moralismo in questo sguardo rischiarato dai lumicini dell’intelligenza: il mondo in cui Anita è cresciuta somiglia a uno spot ingannevole ma sfavillante. Invece di giudicarlo, tanto vale guardarsi indietro per capirlo.