Candidarsi come capolista ovunque? No, Elly, non lo fare. «Diciamo che non è nella nostra cultura», sintetizza chi non è nella cerchia stretta della segretaria ma neppure la contesta. Altri invece sarebbero pronti a fare le barricate contro una scelta che avrebbe l’inconfondibile stilema della donna sola al comando. Elly Schlein sa che quella della sua candidatura come capolista in tutta Italia alle elezioni europee è una possibilità concreta cui potrebbe indurla una speculare candidatura di Giorgia Meloni, ipotesi peraltro – a quanto pare – tutt’altro che sicura.
Si ragiona nell’area riformista, o come si chiama, che inseguire la presidente del Consiglio sul suo terreno plebiscitario sarebbe un errore blu: primo, perché la leader del Nazareno rischierebbe di perdere di brutto (a parte il fatto che i sondaggi continuano a dare Fratelli d’Italia sopra il Partito democratico di dieci punti, che figura fai se prendi un milione di voti in meno?); secondo, una scelta così la poteva fare Silvio Berlusconi, padre-padrone del suo partito, mentre Schlein si picca di dirigere la famosa comunità composta da tante sensibilità e personalità.
Non a caso nessun leader del Pd si è mai candidato in tutte le circoscrizioni elettorali. Non Dario Franceschini nel 2009, meno che mai Matteo Renzi, nel 2014 presidente del Consiglio, accusato di essere l’uomo solo al comando per definizione, che scelse cinque donne come capilista (e prese il famoso quaranta virgola otto percento, record destinato a essere imbattuto per secoli), e nemmeno Nicola Zingaretti nel 2019. Non si può dire che non si trattasse di segretari forti. Bisogna andare al Berlinguer del 1979, le prime elezioni europee, ma erano altri tempi.
Eppure stavolta appare la questione della candidatura multipla del(la) leader: e il solo fatto che se ne discuta è il segno che con l’avvento di Elly Schlein qualcosa è cambiato – se il numero uno fosse stato Stefano Bonaccini la questione probabilmente non si sarebbe posta – nel senso di una fortissima accentuazione del primato del leader che si deve in primo luogo alla caratteristica di novità che Schlein ancora esprime e poi anche al fatto che il Pd, per ragioni varie e non sempre semplici di spiegare, in questi mesi ha via via smarrito quel carattere plurale che ha avuto (e pure troppo) dalla sua fondazione. Per cui alla fine questa è un partito fortemente leaderistico, bizzarramente peraltro, stante la cultura politica estroversa e movimentista della segretaria che in teoria dovrebbero essere un antidoto al leaderismo.
È probabile che la squadra di Schlein, più agguerrita, coesa e politicamente famelica di quello che si poteva pensare, spinga per una scesa in campo della leader in tutta Italia per prendersi la scena nel suo campo e giocarsi un clamoroso e muscolare braccio di ferro al femminile con la presidente del Consiglio rendendo plastica la contrapposizione del decennio che sfocerà alle prossime politiche, le Europee dunque come un passaggio intermedio per testare la competitività di Elly dando per scontato che Meloni partirebbe molto più forte.
Una bella sfida. Che spiazzerebbe Giuseppe Conte e annichilirebbe sul nascere qualunque discussione interna. Ed è proprio questa la ragione per la quale la minoranza non accetterà mai questo super-ruolo di Schlein, ovviamente anche facendo garbatamente notare che Elly Schlein non è esattamente come Silvio Berlusconi. E che sfracellandosi lei il Pd entrerebbe in un buco nero. A chi conviene? Meglio non correre rischi, Elly. E in cuor suo forse è quello che pensa anche lei.