In un’intervista del 2006, un anno dopo il ritiro unilaterale da Gaza deciso dal premier israeliano Ariel Sharon, Marco Pannella dimostrò, per l’ennesima volta, la sua proverbiale lungimiranza di Cassandra geopolitica. Raccontò infatti di avere litigato con gli israeliani che gli parlavano del ritiro dai territori occupati dicendo: «Comunque vada, è terra contro pace» e di avere risposto loro: «Vi sbagliate, sarà territori contro guerra».
Hamas aveva vinto da pochi mesi le elezioni legislative palestinesi e pochi mesi dopo avrebbe buttato fuori a cannonate Fatah da Gaza, facendone quella immonda conigliaia dell’odio antisemita e dell’arruolamento jihadista e quell’immenso scudo umano di due milioni di derelitti (erano la metà nel 2006), istruiti e comunque costretti alla buona morte combattente e al disciplinato servizio della propaganda umanitaria dei tagliagole.
Pannella era a quei tempi impegnato nella battaglia immaginifica per l’adesione di Israele all’Unione europea, come garanzia di sicurezza per gli ebrei e prospettiva di liberazione dei palestinesi dalla vittimizzazione e auto-vittimizzazione nella lotta antisionista.
L’iniziativa di Pannella non ebbe alcun esito e, col senno di poi, la si può giudicare troppo generosa verso la forza di attrazione e interposizione dell’Ue e troppo fiduciosa nelle radici europee dello stato ebraico, destinate se non a dissolversi, certo a rinsecchirsi nelle trasformazioni demografiche e socio-culturali a cui Israele sarebbe andato incontro negli anni successivi.
Ma Pannella aveva indubbiamente ragione a denunciare l’ingenuità pericolosa di uno scambio tra pace e terra, che non partisse dalla consapevolezza che senza liberare i palestinesi dalla cattività antisionista qualunque lembo di Palestina si sarebbe trasformato in un ulteriore avamposto della guerra contro Israele. Cioè, esattamente quel che successe a Gaza.
Quell’errore, che avrebbe diviso irrimediabilmente il fronte palestinese, congelato la situazione in un equilibrio precario e senza prospettive e giustificato la degradazione dell’ideale sionista nel nazionalismo etno-religioso della destra israeliana, nasceva dall’equivoco che fin dall’inizio, cioè dal 1947, portò soprattutto fuori da Israele a interpretare la questione palestinese come una questione nazionale, malgrado la terra della Palestina non abbia mai rappresentato l’obiettivo comune degli stati e delle élite arabe (palestinesi compresi), ma il pegno di un patto, apertamente dichiarato e pubblicamente rivendicato, contro l’affronto di quello stato ebraico che avrebbe dovuto sorgergli accanto.
La terra contesa è stata, fin dall’inizio, quella di Israele, non quella della Palestina, e offrire terra in cambio di pace, come si è ripetuto mille volte nella retorica negoziale, non sarebbe stato sufficiente finché la terra offerta – cioè, per gli arabi, semplicemente riconsegnata – non fosse stata quella di Israele.
L’islamizzazione della questione palestinese ha reso ancora più radicale questo scontro e mai come oggi «terra in cambio di pace», come «due popoli, due stati», suona come una giaculatoria ossessivamente ripetuta per esorcizzare lo spettro di una guerra il cui trofeo non è Gerusalemme, ma il sangue degli ebrei.