Dall’inizio del 2023, il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha promesso a più riprese un aumento generalizzato degli stipendi degli insegnanti accompagnato da incrementi salariali differenziati su base territoriale. Oggi tutti i docenti percepiscono lo stesso salario indipendentemente dal luogo in cui lavorano, mentre il ministro propone di adeguare lo stipendio al costo della vita, che varia di luogo in luogo. Ma quali sono i benefici e i costi attesi di questa misura?
Il contratto nazionale del corpo docente fissa una remunerazione omogenea sul territorio nazionale con scatti salariali legati a criteri di anzianità. Tuttavia, garantire lo stesso stipendio a livello nazionale penalizza gli insegnanti che vivono in zone dove i prezzi sono più alti, come le aree metropolitane. Determina, cioè, discrepanze in termini di potere d’acquisto – non solo tra Nord e Sud del paese, ma anche tra aree diverse all’interno della stessa regione. Alla luce di questo divario, la proposta del ministro non chiarisce né la strategia di implementazione né le ragioni sottostanti la misura.
Gli interventi recenti, come l’aumento salariale previsto nella scorsa manovra e ampliato lo scorso maggio, gli sgravi fiscali per dipendenti pubblici e le misure a sostegno dei docenti precari contenute nella bozza della Legge di Bilancio, non vanno nella direzione auspicata dal ministro. D’altra parte, non è chiaro come attuare incrementi differenziati sulla base dell’indice dei prezzi al consumo locale: l’equiparazione dei salari reali può avvenire sia migliorando la situazione di coloro che vivono in aree con un alto costo della vita, sia penalizzando coloro che vivono in aree con un basso costo della vita.
In assenza di un progetto definito, abbiamo elaborato una simulazione dell’impatto sulla spesa pubblica in diversi scenari possibili.
Aumento generalizzato e localizzato dei salari: come?
Nella simulazione, usiamo dati Ocse per lo stipendio nominale degli insegnanti e dati del ministero dell’Istruzione e del Merito per la distribuzione degli insegnanti a livello locale. In particolare, questi dati tengono conto dell’età, dell’anzianità e del livello della scuola, così da riflettere la diversa composizione del corpo docente in ogni provincia. La scuola secondaria di II grado impiega larga parte dei docenti italiani ed è seguita a ruota dalla scuola primaria. In tutte le scuole, oltre il sessantasei per cento dei docenti ha più di quarantacinque anni, mentre meno dell’undici per cento è al di sotto dei trentaquattro anni.
Per ottenere il salario reale dei docenti in ogni provincia, è necessario avere una misura dei prezzi a livello locale. In mancanza di dati sul costo della vita per ogni provincia, uno studio del 2013 di Enrico Moretti mostra che è possibile approssimare la dispersione dei prezzi a livello locale sulla base del costo degli immobili. Ispirandoci a questa metodologia, costruiamo un indice del costo della vita a livello provinciale a partire dai dati sui prezzi degli immobili nel 2021 forniti dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate (Omi).
Introducendo alcune assunzioni dovute alle limitazioni dei dati disponibili, come quella di un costo fisso per gli altri beni, questo indice dei prezzi per provincia consente di catturare il diverso potere d’acquisto dei salari degli insegnanti a livello locale. Per esempio, un insegnante di Milano deve far fronte a prezzi che sono più alti del diciannove per cento rispetto a quelli di Caltanissetta. A causa delle assunzioni fatte, il divario tra province è comunque da interpretarsi in maniera conservativa, in quanto rischia di sottostimare la variabilità geografica dei prezzi a livello locale.
Immaginiamo quattro possibili riforme, due estreme e due intermedie. Nella prima (A), portiamo tutti i salari reali al livello di quello più alto in questo momento. Nella seconda (B), al contrario, li adeguiamo al livello minimo. Le due alternative intermedie, invece, considerano di uniformare il salario reale a quello medio per tutti (scenario C), abbassando il salario di chi vive in un’area con il costo della vita sotto la media e alzando quello di chi vive in un’area con il costo della vita sopra la media; oppure (scenario D) soltanto di aumentare fino al livello medio reale l’importo del salario di chi è sotto la media.
La tabella sottostante illustra come varierebbe l’importo in busta paga di un insegnante delle scuole superiori con quindici anni di esperienza in diverse province italiane, secondo le varie possibili riforme.
Calcoliamo la differenza di salario per ogni insegnante (di cui conosciamo provincia, anni di esperienza e livello della scuola) e usiamo il totale come stima dell’impatto sulla spesa pubblica. Lo scenario A comporta un’ingente spesa per lo Stato (+1,95 miliardi all’anno), mentre lo scenario B un risparmio anche superiore alla spesa della prima ipotesi (-2,42 miliardi). Lo scenario C, invece, opera parzialmente attraverso una redistribuzione dei salari esistenti e impegna le finanze pubbliche meno dello scenario D: quattrocentottantasette milioni vs settecentosettantasei milioni. In ogni caso, la simulazione di spesa non tiene in considerazione il guadagno fiscale che deriva da un aumento degli stipendi. Infatti, stiamo solo valutando il costo diretto di questa misura.
Aumento generalizzato e localizzato dei salari
Comprendendo che le inevitabili pressioni impedirebbero una revisione verso il basso del salario nominale, come ipotizzato nello scenario (B) e, in parte, (C), l’ultimo pezzo mancante del puzzle è la gestione dei fondi di una tale manovra: dove saranno reperiti i fondi necessari per attuare gli scenari (A) o (D)? Invece di addentrarsi in considerazioni sull’adeguatezza della misura e, in caso affermativo, sulle sue possibili implementazioni, è importante sottolineare che l’imperativo del ministro, «valorizzare i docenti», è tanto urgente quanto ampio per formulare misure di policy efficaci. Come spesso accade quando si parla di scuola, non è chiaro il legame tra lo slogan e il risultato desiderato.
Gli incrementi dei salari reali possono essere volti ad aumentare la competitività dei salari dei docenti rispetto ad altri settori lavorativi, così da favorire la permanenza di chi è già nella scuola e attrarre più neolaureati. In tal caso, si potrebbe disegnare una differenziazione salariale non solo sulla base del luogo di lavoro, ma anche dell’ambito di insegnamento. Al contempo, la misura può essere guidata dall’intento di aumentare la motivazione del corpo docente attuale. Se così fosse, la proposta non troverebbe pieno consenso nella letteratura scientifica in materia che, pur a fronte delle difficoltà nel misurare il valore aggiunto di ogni insegnante, esclude inequivocabilmente l’esistenza di una relazione tra incentivi monetari e migliori rendimenti scolastici degli studenti o una minore dispersione scolastica.
Per «valorizzare i docenti», è fondamentale dunque inserire le promesse del ministro entro un quadro di policy più ampio così da individuare fondi a disposizione e vagliare eventuali vie alternative che emergano dall’evidenza scientifica in materia. Solo così possiamo evitare soluzioni temporanee che rischiano di gravare sulle casse dello stato e modificare la composizione di chi insegna nelle aule scolastiche tutti i giorni, senza però migliorare lo status quo.