Nessun’altra città è cosí piena di vuoto. Ai margini del centro urbano di Berlino, a pochi minuti di metropolitana dalla torre di Alexanderplatz, la città si spalanca nel nulla: l’aeroporto di Tempelhof, dismesso nel 2008 e convertito in un illogico parco senza qualità. Quasi niente alberi, niente colline, niente cascatelle o rocce romantiche a suggerire una natura violenta. […] È grande quattro chilometri quadrati, una misura astratta che non suggerisce niente. In concreto: quanto il centro storico di Bologna, due volte il Principato di Monaco, poco piú di Panarea. Oppure: per attraversarlo a piedi occorre camminare per mezz’ora, sempre dritti, a passo spedito. […] Anche nei momenti di maggior affollamento la spianata del vecchio aeroporto sembra sempre vuota, grande abbastanza da offrire a chiunque la libertà di fare ciò che vuole. Da questo punto di vista, è un’immagine efficace di un certo mito della città di Berlino: era quel vuoto, quel senso di libertà, che cercavano i ventenni e le ventenni di tutto l’Occidente che a partire dagli anni Novanta si sono trasferiti qui. Cercavamo. Uno di loro ero io.
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Sono arrivato a Berlino nel 2009. Ci vivo ancora. Me ne sono andato, sono tornato. Nel corso del tempo ho avuto vari motivi per restare: piú o meno validi, piú o meno vulnerabili ai negoziati con la durezza dell’inverno e la nostalgia. Ma a quasi quindici anni di distanza faccio fatica a ricordare la singola ragione che mi ha convinto a trasferirmi qui, il processo che ha condotto a una decisione che nel bene o nel male ha determinato gran parte della mia vita da allora. Che andarsene fosse un capriccio, di certo è vero; e a posteriori mi appare chiaro quanto debba ringraziare fortuna e privilegio per non essere giunto a rimpiangerlo. Quello che non riesco a spiegarmi è come mai quel capriccio mi abbia portato a Berlino. […] Dire che andava di moda è vero ma non spiega niente, perché altre città risultavano altrettanto modaiole, in un certo tipo di immaginario, ma molto meno complicate da un punto di vista pratico, molto meno simili a un salto nel vuoto. Per esclusione, adesso, mi dico che il punto doveva essere questo: cercavo il vuoto. Nel vuoto di una città piena di spazio, nel silenzio di una lingua che non parlavo, tra persone sconosciute, ero convinto di trovare qualcosa di simile alla libertà.
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Mi sono trasferito appena due mesi dopo averlo deciso, insieme ad Andrea, un amico in una situazione simile alla mia. Anche lui sentiva qualcosa di opprimente nell’ingresso nell’età adulta a Milano. Anche lui era in una relazione di cui sentiva avvicinarsi la scadenza naturale senza esser certo di trovare la forza per rispettarla. Anche lui cominciava, cominciava appena, ad avvertire lo sgocciolio del tempo. Anche lui scriveva. […] Trasferendomi a Berlino speravo di scoprire qualcosa osservandomi in un contesto alieno, come nell’esperimento di un chimico che esplora le proprietà di un reagente nuovo. Forse agire completamente a caso è l’unico modo che abbiamo di avvicinarci all’esperienza del libero arbitrio, ma dire che non avevo ragioni non vuol dire che sono venuto a Berlino a caso. Diciamo che allora – nell’ambiente che frequentavo, nel segmento socioeconomico in cui ero capitato – il trasferimento a Berlino era una mossa possibile, un’azione analoga al reset disponibile in certi videogiochi: perdi il progresso accumulato finora, ma hai una chance per trasformare il mondo attorno a te. La ragione è una scommessa: non una certezza che hai dietro di te, ma una speranza davanti.
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Andrea e io eravamo entrati nel mondo adulto con l’idea di una vita impegnata in una dimensione collettiva – un’idea forse antistorica, magari ingenua, però realistica per chi aveva fatto l’adolescenza nella Milano fitta di centri sociali degli anni Novanta. Ma la città stava cambiando, forse era già cambiata; e in quella in divenire sembrava esserci sempre meno posto per il mondo in cui eravamo cresciuti. Sentivamo crescere le cose contro cui lottare proprio mentre scemavano gli orizzonti di lotta. Dunque, a Berlino, penso, cercavamo la deresponsabilizzazione di chi può abitare in un luogo senza sentirsi chiamato in causa dalle ingiustizie che lo segnano. Era una specie di vacanza. Etimologicamente, «vacanza» significa vuoto. […] Certo, dire che eravamo attratti dal vuoto è come dire che eravamo attratti da qualcosa che non c’era. Magari non c’era ancora: un vasto spazio libero in attesa di essere riempito è come si percepisce il tempo a vent’anni. E venire a Berlino scommettendo su un qualche potenziale che quella libertà avrebbe sprigionato in certa misura aveva funzionato: alla fine di quell’estate io avevo riscritto la prima sezione di un romanzo cominciato l’anno prima – nella versione che in seguito sarebbe stata pubblicata. Andrea aveva quasi finito il suo, che sarebbe uscito due anni dopo.
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E quindi, settembre 2009, ero a Berlino da solo. E da solo non potevo permettermi l’appartamento a Prenzlauerberg –, ma lavorando in casa non volevo condividerlo con degli sconosciuti. Da un giorno all’altro ero senza casa. […] Ma quello che la città è stata da allora si rispecchia meglio, nella mia mente, in un luogo attraversato da una storia fatta di momenti grandiosi come il volo dello Zeppelin e atroci come la dittatura nazista e commoventi come i bombardamenti di dolciumi, un luogo accogliente e disorganizzato, troppo caotico per poter imporre regole a chi sceglie di stabilircisi per un’ora o un mese o un decennio, una riserva di spazio tanto vasta da intralciare chiunque provi a imporle una destinazione precisa, e quindi destinata a rimanere cosí, aperta e illogica: quattro chilometri quadrati di potenziale puro. È stata la speranza in quel potenziale a farmi restare qui, da solo.
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency
Da “La chiave di Berlino” di Vincenzo Latronico, Giulio Einaudi Editore, 152 pagine, 17,50 euro