La sconfitta di OrbánL’Ue apre i negoziati di adesione con l’Ucraina

Durante il Consiglio europeo gli Stati membri hanno raggiunto un risultato insperato: il premier ungherese sembrava deciso a mettere il veto, ma poi ha abbandonato la sala per permettere il voto unanime

LaPresse

Quando alle 18.25 di una giornata lunghissima arriva l’annuncio di Charles Michel, molti giornalisti nella sala stampa del Consiglio europeo di Bruxelles si guardano increduli. I Paesi dell’Ue hanno deciso di aprire i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova, come raccomandato dalla Commissione europea a novembre, superando un’opposizione che sembrava inscalfibile da parte dell’Ungheria. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán era arrivato a Bruxelles con il solito piglio battagliero e sembrava determinato a far valere il suo potere di veto su una decisione che andava presa all’unanimità. «L’allargamento non è una questione teorica, è un processo basato sui meriti, giuridicamente dettagliato, che ha dei prerequisiti», le sue parole all’ingresso del vertice. «Non c’è alcuna ragione per discutere ora l’adesione dell’Ucraina».

Agli altri leader era chiaro che sarebbe stato difficile convincerlo, sia su questo che sull’altro delicato tema al centro delle discussioni, l’istituzione di un fondo di assistenza finanziaria da cinquanta miliardi di euro per sostenere l’Ucraina contro l’invasione russa. Per questo Orbán è stato il più cercato prima dell’inizio del summit. Prima un incontro con i vertici delle istituzioni comunitarie, Ursula von der Leyen e Charles Michel, insieme ai capi di governo di Francia e Germania, Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Poi un bilaterale con la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, con cui condivide certe affinità politiche, ma non la posizione sull’Ucraina.

Nelle prime ore di discussione sembrava difficile sbloccare lo stallo. Fonti diplomatiche riferivano a metà pomeriggio che «non si era avanzati di una virgola» e che ventisei Paesi erano d’accordo sulla revisione del bilancio dell’Unione europea, cioè la decisione che avrebbe permesso lo stanziamento dei fondi all’Ucraina. Tanto che l’argomento è stato lasciato ai funzionari delle delegazioni nazionali, mentre i capi di Stato e di governo hanno cominciato a parlare dell’allargamento dell’Ue. Con una svolta improvvisa: Orbán si è assentato dalla sala lasciando che i suoi omologhi decidessero di aprire i negoziati. Una mossa inconsueta e innovativa, che di fatto significa un via libera, ma consente al leader ungherese di non partecipare formalmente alla decisione.

Lo ha spiegato lo stesso primo ministro di Budapest in un video postato sulla sua pagina Facebook. «Da quasi otto ore discutiamo al vertice di Bruxelles. Abbiamo avuto un grande dibattito sull’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. La posizione dell’Ungheria è chiara: l’Ucraina non è pronta ad avviare i negoziati di adesione. È una decisione inutile, irrazionale e sbagliata aprire i negoziati con l’Ucraina in queste circostanze, e l’Ungheria non cambierà la sua posizione». Al contrario, dice Orbán, gli altri ventisei Paesi hanno insistito. «L’Ungheria allora ha deciso che se gli altri 26 Paesi decideranno di farlo, dovranno andare per la loro strada. L’Ungheria non vuole condividere questa pessima decisione e per questo oggi si è astenuta».

Come spiegano a Linkiesta fonti diplomatiche, si tratta in realtà solamente di una trovata simbolica. Dal punto di vista «legale» non cambia nulla: le conclusioni del Consiglio europeo si adottano all’unanimità e la mancanza di obiezioni significa assenso. A Orbán, sostiene la fonte, non è stato promesso nulla, ma il leader ungherese ha avuto contatti serrati con alcuni dei suoi omologhi in questi giorni, e ceduto una volta constatato l’isolamento su una decisione sostenuta da tutti gli altri Stati. Forse ha influito anche l’apertura della Commissione europea che ha deciso proprio alla vigilia del vertice di sbloccare 10,2 miliardi dei fondi europei destinati a Budapest e congelati per i noti problemi relativi allo Stato di diritto nel Paese.

Un percorso (ancora) complicato
L’apertura dei negoziati di adesione comunque non significa l’ingresso immediato nell’Ue, per un Paese che ha ancora riforme da compiere e vuoti da colmare per allinearsi agli standard europei. Ma resta un «potente segnale politico», come ha detto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ai giornalisti subito dopo l’annuncio: la prima traduzione concreta della prospettiva europea garantita alle aspirazioni ucraine.

«Non entreranno nell’Ue domani», racconta una fonte diplomatica a Linkiesta, spiegando che i negoziati potranno effettivamente cominciare solo a marzo, quando la Commissione dovrà presentare un’ulteriore analisi della situazione e preparare il cosiddetto «quadro negoziale». Intanto il presidente Volodymyr Zelensky e la sua omologa moldava Maia Sandu hanno ottenuto in meno di due anni qualcosa che ad altri è costato molto di più: Albania e Macedonia del Nord, ad esempio, che hanno ottenuto l’apertura dei negoziati a luglio 2022, aspettavano rispettivamente dal 2014 e dal 2005.

Il veto ungherese, tuttavia, potrebbe solo essere rimandato, visto che i passaggi fondamentali dell’adesione di un Paese all’Ue vanno approvati da tutti gli Stati membri. Anche perché Viktor Orbán può mantenere bloccata un’altra decisione, forse ancora forse ancora più cruciale a breve termine per il governo di Kyjiv: il fondo europeo di assistenza finanziaria da cinquanta miliardi di euro per i prossimi tre anni, composto da trentatré miliardi di prestiti a basso interesse e diciassette miliardi di sovvenzioni a fondo perduto.

Ossigeno per le casse in dissesto dell’Ucraina, ancora di più in un momento in cui il Congresso degli Stati Uniti frena sugli aiuti americani. Il fondo sarebbe parte di una revisione del bilancio comunitario, il Quadro pluriennale finanziario 2021-2027, da 98,8 miliardi in totale: oltre ai soldi per l’Ucraina, verrebbero finanziate misure per gestire i flussi migratori e una nuova piattaforma per le tecnologie strategiche detta Step, oltre a pagare gli interessi sul debito e gli stipendi dei funzionari comunitari, aumentati a causa dell’inflazione.

La discussione è complicata perché i Paesi membri devono mettersi d’accordo su quanti soldi aggiungere e come utilizzarli, e non è facile trovare una soluzione che accontenti tutti: i Paesi del Sud Europa, come Italia e Grecia, spingono per preservare i fondi destinati all’immigrazione, quelli nordici preferiscono finanziare solo il fondo per l’Ucraina. Ma tutti sono d’accordo sui cinquanta miliardi di euro da garantire a Kyjiv. Tutti tranne Orbán, per ora.

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