Dopo una lunga battaglia a intensità ridotta tra Bruxelles e Budapest, la Commissione europea ha attivato l’arma più pesante del suo arsenale per contrastare le politiche del governo di Viktor Orbán, che considera responsabili di «violazioni dello stato di diritto» in Ungheria.
Il collegio dei commissari, riunito straordinariamente di domenica, ha votato all’unanimità la sospensione di parte dei fondi europei destinati al Paese: circa 7,5 miliardi di euro, «congelati» fino a quando il governo ungherese non avrà risolto i problemi legati alla corruzione, alla giustizia e ai conflitti di interesse. La misura, però, entrerà in vigore soltanto se approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio dell’Unione europea, chiamato a pronunciarsi entro un mese.
Un blocco da 7,5 miliardi
La decisione della Commissione è il passo più significativo di una procedura attivata il 27 aprile 2022. Utilizzando il meccanismo che vincola l’esborso dei fondi comunitari al rispetto dello stato di diritto, la Commissione ha in un primo momento segnalato all’Ungheria la sua preoccupazione per «irregolarità sistematiche e carenze nell’assegnazione dei fondi pubblici», «conflitti di interesse» e «aspetti relativi all’indipendenza della magistratura».
Il governo di Budapest ha risposto in estate proponendo 17 misure per correggere le anomalie rilevate: tra queste l’istituzione di un’Autorità anti-corruzione, il rafforzamento dei controlli, la diminuzione delle gare d’appalto con un’unica offerta, la modifica del codice penale, una maggiore trasparenza e collaborazione con l’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode.
Tutte cose gradite alla Commissione, che però non sembra fidarsi ciecamente delle promesse di Orbán. L’implementazione di queste misure, secondo la roadmap ungherese, avverrà nei mesi autunnali. Ma finché non saranno pienamente effettive, non potranno essere giudicate «adeguate» a risolvere i problemi, come ha spiegato il commissario al Bilancio Johannes Hahn.
«I rimedi proposti sono in teoria in grado di rispondere alle questioni sollevate, se declinati e implementati correttamente in leggi e regolamenti». Importanti dettagli di queste proposte, afferma però Hahn, sono ancora da definire, in particolare «come i loro elementi chiave saranno effettivamente trasposti nella legislazione». Cosa che non lascia dormire sonni tranquilli a Bruxelles: se pure l’Ungheria si muove nella giusta direzione, come ha sottolineato il commissario, non è affatto scontato che arrivi alla meta.
Secondo la valutazione della Commissione, quindi, la corretta distribuzione dei fondi comunitari rimane a rischio, e di conseguenza è necessario adottare delle misure di protezione europee fintanto che quelle ungheresi non siano davvero realizzate ed efficaci. L’esecutivo dell’Unione propone in sostanza due cose: la sospensione del 65% dei soldi destinati all’Ungheria tramite tre programmi dei fondi di coesione già operativi, per un totale di 7,5 miliardi di euro circa, e il divieto di sottoscrivere accordi giuridici con fondi di interesse pubblico. Misure revocabili se e quando la Commissione si riterrà soddisfatta della situazione.
La palla passa agli Stati
La reazione da Budapest è arrivata subito, con le parole della ministra della Giustizia Judit Varga: «Il governo ungherese continuerà a negoziare con la Commissione europea e impedire che il taglio dei fondi di coesione proposto oggi diventi effettivo. Ci stiamo muovendo nella giusta direzione: continuiamo così». Ma dietro la sicurezza ostentata dall’esecutivo di Orbán c’è la consapevolezza che la Commissione, anche per effetto della spinta del Parlamento europeo, non è più disposta a fare sconti all’Ungheria.
Lo dimostra anche il fatto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza ungherese sia l’unico ancora non approvato dall’esecutivo comunitario: quasi sei miliardi di euro bloccati in attesa di un giudizio positivo, che difficilmente arriverà prima di aver messo in atto le misure promesse.
A «salvare» l’Ungheria potrebbero essere ancora una volta gli altri Stati membri. Secondo il regolamento del meccanismo di condizionalità (2020/2092), infatti, La Commissione può bloccare i trasferimenti di denaro a uno Stato membro quando ravvisa un nesso tra la violazione di un principio dello stato di diritto e un danno o un rischio di danno alla gestione dei fondi europei in quel Paese. Ma le sanzioni disposte devono essere approvate dal Consiglio dell’Ue a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri che abbiano almeno il 65% della popolazione europea.
Il criterio di voto permette che l’iniziativa della Commissione non possa essere ostaggio dell’opposizione di un singolo Paese, come succede ad esempio nella procedura dell’Articolo 7, ma non significa comunque un’approvazione automatica. La votazione, che dovrà avvenire entro un mese, o al massimo due per «circostanze eccezionali», dipenderà dal posizionamento degli altri governi europei, il cui peso specifico aumenta all’aumentare della popolazione.
L’Italia è il terzo Stato dell’Ue per numero di abitanti e al momento della votazione potrebbe già avere un governo diverso da quello attuale. Se a prevalere fosse la coalizione di centro-destra, è più probabile una linea morbida nei confronti dell’Ungheria.
Il giorno stesso della decisione della Commissione, la candidata premier di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha contestato «ciò che l’Ue sta facendo con l’Ungheria» e la settimana precedente i suoi europarlamentari a Strasburgo hanno votato contro (insieme a quelli della Lega) una risoluzione che definisce il Paese magiaro una «autocrazia elettorale» e una «minaccia sistemica ai valori dell’Unione». Non è difficile immaginare per chi farà il tifo Orbán il 25 settembre.