Rischio greenwashingIl Digital product passport dell’Ue e l’impreparazione delle aziende italiane

In attesa di nuove scadenze normative, le nostre imprese devono comunque attivarsi per l’introduzione di questo “raccoglitore” di dati relativi al prodotto (dalla materia prima agli agenti chimici): «Purtroppo, però, esiste ancora un approccio orientato solo a una piccola gamma di articoli», racconta Francesca Rulli

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Da quando Bruxelles, nel marzo del 2022, ha approvato una Strategia per il tessile sostenibile e circolare, in tutta l’Unione europea si è iniziato a mettere a terra normative e azioni concrete per arrivare a quello che è l’obiettivo finale della strategia: a partire dal 2030, tutti i prodotti tessili realizzati devono rispettare dei rigidi parametri ambientali. Le richieste riguardano in particolar modo il design degli articoli, che deve essere ripensato alla radice in ottica circolare, ossia prevedendo già le possibilità di riciclo o riuso alla fine della vita del capo, ma anche il fatto che siano prodotti con fibre naturali e biodegradabili e realizzati con processi efficienti dal punto di vista dei consumi. 

Per ottenere questo risultato uno strumento fondamentale è rappresentato dal Digital product passport (Dpp): un raccoglitore di tutti i dati relativi al prodotto, dalla materia prima ai cicli produttivi, dall’acqua, agli agenti chimici e all’energia utilizzata fino al trattamento dei lavoratori.

Il Digital product passport costituirà la specifica applicazione di direttive già uscite, ma per le quali ancora non ci sono delle scadenze normative: la regolamentazione dello standard per quanto riguarda la raccolta dei dati è prevista per il 2024, quindi l’attuazione effettiva della norma, con l’adozione del Dpp, non avverrà prima del 2025, forse del 2026. 

A ipotizzare questa tabella di marcia è Francesca Rulli, fondatrice di 4sustainability, agenzia di implementazione che opera nella sostenibilità della filiera tessile e che ha da poco lanciato Y Hub, la prima holding italiana che aiuta le aziende a misurare i propri impatti di filiera, ovvero i dati che serviranno per compilare il Dpp. 

«Il Digital product passport ha come obiettivo quello di superare le tradizionali informazioni relative al prodotto che troviamo sull’etichetta, ovvero la composizione, il Paese di fabbricazione e le norme di manutenzione. Tutte informazioni utili che però ci dicono poco sull’effettivo impatto dell’oggetto, perché le aziende in molti casi sono frammentate in diversi attori e in diverse aree geografiche, e non vengono inclusi aspetti chiave come la riciclabilità», racconta.

L’obiettivo del Digital product passport è quello di rispondere a specifiche esigenze normative e di mercato: «Gli ultimi dieci anni hanno spinto questo settore a porre l’attenzione sui processi di fabbricazione oltre che sul prodotto, non è più importante solo la performance, ma sono cruciali anche le informazioni sulla filiera, che portano con sé geografie e normative. Dalla sola etichetta è difficile evincere se quel prodotto sia stato realizzato nel rispetto dei diritti umani, se chi lo ha fatto ha lavorato in sicurezza: sono tutte cose che senza il passaporto digitale non si possono raccontare. L’obiettivo è dare trasparenza ai cicli di produzione», continua Rulli. 

Quali sono le sfide più grandi che questo passaporto impone oggi a brand e produttori?
«L’adozione del Dpp oggi pone delle sfide enormi a tutto il mercato, perché i brand che hanno iniziato ad avere una sensibilità, e di conseguenza strategie valide rispetto alla sostenibilità, sono una piccola fetta. Quello che è necessario fare da parte di tutti è: mappare i propri fornitori, tracciare i propri prodotti attraverso sistemi digitali che permettono di ripercorrere le varie fasi, e infine misurare l’impatto tenendo conto delle variabili in cui questo verrà richiesto». 

Ma le aziende sono pronte?
«Anche se parliamo di misurazione dell’impatto e di trasparenza di filiera ormai da diversi anni, il Dpp è una materia molto nuova. Detto questo esistono le metodologie per raccogliere questi dati, esistono gli standard, esistono perfino le tecnologie da applicare a garanzia dell’autenticità del dato: quello che oggi manca, e che fa trovare più impreparate le aziende, è l’adozione massiccia di queste soluzioni. Purtroppo esiste ancora un approccio troppo capsule, orientato solo nei confronti di una piccola gamma di prodotti. Vengono presi in esame per queste prove di passaporto solo determinati articoli perché le collezioni di moda sono enormi, uno degli obiettivi del passaporto sarebbe infatti proprio quello di incentivare un diverso design del prodotto alla base, per ottimizzare le collezioni». 

Parlando di esempi concreti: un’azienda che oggi volesse dotarsi di un passaporto di prodotto digitale cosa dovrebbe fare?
«Oggi sono due le tipologie di approccio: da una parte quello dei brand, che devono mettere insieme le componenti che stanno all’interno dei propri prodotti: quindi identificare ogni componente e, per ognuna di queste, andare a tracciare le informazioni relative a produttori e fornitori, rilevando quei dati che riguardano l’acqua, l’energia, le emissioni in atmosfera e la chimica utilizzata. Questo si traduce nel prendersi l’obbligo di trasparenza sui fornitori che si è utilizzato e, di conseguenza, sugli impatti che si ha indirettamente generato. La stessa cosa succede per il fornitore in una sorta di effetto domino: ogni livello fa lo stesso esercizio con una differenza, mentre il brand l’esercizio lo deve fare sulle varie componenti del proprio prodotto (se prendiamo come esempio una giacca bisogna tenere di conto della fodera, del tessuto principale, delle zip, dei bottoni e di tutte le componenti dell’oggetto), se parliamo invece del fornitore lui dovrà farlo sui cicli di lavorazione, quindi in primo luogo dal luogo da cui proviene la fibra. Ad esempio se stiamo parlando di cotone dovrà indicare da quale parte del mondo arriva e chi ha lavorato il filo: dobbiamo immaginare una mappa geografica in cui si identificano i passaggi fondamentali dei vari cicli di trasformazione ed i relativi impatti ambientali e sociali ad essi collegati. Il produttore del tessuto deve raccogliere i dati sia all’interno dei suoi processi e sia quelli che vengono dai suoi fornitori attraverso una struttura di data modeling, attraverso cioè uno standard di raccolta che permetta di misurare con le stesse metriche tutti i fornitori coinvolti. In sintesi si tratta di una raccolta di informazioni strutturata che riguarda i passaggi fondamentali della produzione». 

Ci sono già degli esempi virtuosi di Dpp in circolazione?
Ad oggi non abbiamo ancora una chiara visione di cosa chiederanno le normative in termini di esplicitazione del dato del Dpp, quindi chi lo sta facendo adesso sta selezionando quello che ritiene più importante. Poi c’è il tema della riciclabilità, che è fortemente richiamato dalla normativa, e che quindi qualcuno sta già inserendo nei propri esercizi di Dpp. Ci sono brand come Boss, ad esempio, che hanno adottato passaporti digitali solo per determinati prodotti: nel caso specifico si tratta di scarpe e viene indicato esattamente per ogni componente qual è la provenienza, chi sono i produttori e qual è l’impatto dal punto di vista energetico. 

Questa mole di dati poi, una volta raccolta, andrà ordinata…
«Il grosso del lavoro che stanno facendo sia i brand che le filiere è quello di entrare in contatto con i fornitori, iniziare a raccogliere i dati e dotarsi di piattaforme digitali che permettano di strutturarli. Noi come Y Hub siamo nati per questo, cioè come soluzione per raccogliere in maniera strutturata questi dati, in modo che domani, quando arriverà la specifica su cosa questo passaporto debba contenere, abbiamo già una banca dati verificata e garantita e, soprattutto, non incorriamo in logiche di greenwashing, perché sappiamo esattamente come è stato raccolto il dato. Il modello che noi proponiamo all’interno dell’ecosistema Y Hub prevede la consulenza di process factory, una piattaforma di misurazione d’impatto che si chiama Impact e la piattaforma di tracciabilità di ID Factory: queste sono le tre componenti fondamentali per arrivare a tracciare i prodotti, raccogliere i dati dalla filiera e verificarli attraverso attività di assurance».

Come vengono verificati materialmente i dati? 
Innanzitutto i dati sono raccolti tramite piattaforme che di per sé sono già strutturate per fare dei controlli: se ci sono delle incongruenze sul dato, ad esempio sui volumi d’acqua utilizzati, viene segnalato al momento dell’inserimento. Questo avviene grazie a degli algoritmi, poi noi provvediamo a fare delle interviste: un gruppo di esperti si fa spiegare dai fornitori da dove vengono tutti i dati che sono stati raccolti, si fa dare evidenza delle bollette, dei contatori, fino ad arrivare ad una quota parte di questi fornitori che viene verificata on site, cioè da un auditor che va fisicamente presso la fabbrica per verificare la veridicità del dato. Quindi è un processo scalare: prima autodichiarato e poi verificato, o a distanza oppure on site». 

Ad oggi ci sono anche delle zone d’ombra per quanto riguarda l’adozione del Dpp?
«Il contro è la normazione: noi speriamo fortemente che le specifiche del dato da inserire nel passaporto siano ben regolamentate. Perché altrimenti si rischia che il Dpp diventi un qualsiasi Qr code che viene applicato su un prodotto e che racconta la storia come il brand la vuole raccontare: in questo caso rischierebbe di diventare uno strumento di greenwashing ancora maggiore. L’obiettivo è invece quello di garantire i green e social claim. Dal punto di vista della privacy poi c’è tutto un concetto di trasparenza per cui ci sono delle informazioni sulle quali i fornitori devono essere tutelati: alcune tipologie di raccolta informazioni, nate per la produzione, rischiano di diventare strumenti di benchmark sballati se chi le legge non le sa interpretare. Inoltre anche la logica del confronto tout-court è sbagliata: ogni fibra ha il suo campo di applicazione, il suo motivo di essere utilizzata e, non da ultimo, le sue filiere da proteggere, quindi la comparazione va fatta a parità di parametri. Il rischio altrimenti è quello di penalizzare intere filiere». 

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