Economia pazienteLa secessione morbida degli eccellenti

Come spiega Paolo Manfredi in "L’eccellenza non basta" (Egea), i territori, le famiglie, gli studenti e le imprese di grande valore stanno bene, molto bene, ma sono sempre più avulse dal resto del Paese. Possono abitarvi, lavorarvi, investirvi, ma partecipano sempre meno del destino collettivo

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Se pensiamo alle basi sulle quali sono nate quasi tutte le nostre eccellenze, non possiamo che osservarne le profonde, inclementi trasformazioni. Vale per le eccellenze di derivazione artigiana e di piccola impresa, provinciali, un po’ anarchiche ma vitali e creative, legate al riscatto e al miglioramento della propria posizione sociale. Vale però anche per le eccellenze «olivettiane», legate a grandi imprese di comunità e a grandi imprenditori illuminati. Entrambe le basi, strettamente connesse tra loro, si sono dissolte e, quel che è peggio, non sono state degnamente rimpiazzate.

Un Paese sempre più vecchio, con pochi ragazzi mal valorizzati, sempre più dipendente dalla rendita di posizione di quello che si può ancora vendere è il contrario di com’era l’Italia che ha fatto fortuna e creato marchi di eccellenza, che si sono progressivamente scollati dal milieu territoriale, culturale e distrettuale che li aveva partoriti, magari rimanendo al loro interno ma guardando sempre più fuori che dentro. Non per cattiva volontà, ma seguendo le regole della competizione globale, che inevitabilmente spingono più lontano dal territorio di origine e costringono a equilibrismi tra globale e locale, che non sempre si ritiene di intraprendere. Perché si pensa a crescere, o perché si è acquisiti. Resta, e se serve si rafforza, l’Italian flavour, ma è cosa diversa.

La lista dei marchi italiani di ogni settore acquisiti da gruppi stranieri è vastissima e in crescita. Molti di essi sono marchi straordinariamente forti e in crescita, che hanno trovato nell’inserimento in grandi gruppi globali le risorse e la cultura manageriale (spesso anch’essa incarnata da top manager italiani) per crescere e competere. Non avendo particolari mene nazionaliste, la proprietà straniera di grandi marchi italiani di per sé non rappresenterebbe un problema, se fosse inscritta in un contesto di scambio e circolazione di proprietà, ma così è solo in minima parte, non da ultimo perché i grandi nomi del lusso ancora in mani italiane hanno rinunciato a costruire alternative a LVMH e alle altre corazzate.

Soprattutto non desterebbe preoccupazione laddove vi fosse un evidente ricambio, con lo sviluppo di nuove eccellenze a ritmi costanti, ma così non è più: lo stock di aziende competitive è prevalentemente legato a stagioni più vivaci della nostra economia e oggi si rinnova a ritmi lentissimi. Non potrebbe essere diversamente, avendo disseccato le fonti (il capitale umano, le subculture e i mercati locali) e avendo la tecnologia e la globalizzazione dei mercati alzato drammaticamente le barriere all’ingresso.

I territori, le famiglie, gli studenti e le imprese eccellenti stanno bene, molto bene, ma sono sempre più avulse dal resto del Paese. Possono abitarvi, lavorarvi, investirvi, ma partecipano sempre meno del destino collettivo, hanno una loro agenda, i loro riferimenti competitivi, i loro obiettivi. Rotto l’ascensore sociale, e diminuito drasticamente anche il numero di coloro che potrebbero desiderare di salirvi, la secessione delle eccellenze si consuma morbida, senza collisioni, su binari paralleli che impercettibilmente prima e più violentemente poi si divaricano.

La percezione di malfunzionamento del vivaio, e soprattutto di declino di quella qualità della vita che tanto ha contribuito alla fortuna del marchio Italia, sembra attutita per le eccellenze con la testa rivolta all’esterno, ed erompe solo nei momenti in cui si cercano e non si trovano maestranze, o si soffre per la mancanza di infrastrutture. Guai tutto sommato rimediabili per chi ha una prospettiva globale. Per chi invece guarda al Paese con lo sguardo largo, che non si occupa esclusivamente dello stato di una nicchia ma della media e del futuro, il quadro è ben diverso e assai meno tranquillo.

La secessione degli eccellenti certifica un Paese in difficoltà dietro la «locura» del turismo di lusso e dei grandi marchi. Non tanto e non solo per questioni etiche, pure importanti, ma perché così sega il ramo su cui è seduto. Territori così distanti dai migliori non diventeranno nuove mete, studenti così svantaggiati per estrazione e competenze non diventeranno grandi imprenditori, imprese così fragili non diventeranno nuovi grandi marchi. Senza ricambio, il sistema si sclerotizza e decade.

Il tema non è ovviamente né quello di accogliere sorridendo il declino, né tantomeno quello di abbassare le vette perché sono troppo distanti e neppure di immaginare, come troppe volte è stato fatto, di colmare i divari dipingendo un Paese diverso nella realtà e nelle prospettive. Si tratta invece di immaginare realisticamente come alzare la media e poi di organizzare un altro campionato a cui far partecipare i soggetti che nel campionato furioso sono esclusi e marginalizzati. Un campionato pieno, regolare, anche avvincente, fatto di un po’ di territorio, cultura e tradizione (le vecchie glorie) e molto di energia, tecnologia e sostenibilità (i vivai), giocato negli stadi e nei campetti di tutta Italia, che dialoga con il campionato furioso, ne condivide lo spirito competitivo e alcune regole, senza eccessiva subalternità.

Chiamo questo campionato «economia paziente». È l’organizzazione, intelligente e fruttuosa, delle componenti di valore del Paese (persone, territori, culture, energie) che non rientrano nei processi dell’economia furiosa, o ne sono marginalizzate e sprecate, per dare vita a percorsi di sviluppo che contrastino attivamente i segni di decadimento illustrati in precedenza, anzitutto attraverso la creazione e la valorizzazione del lavoro, l’apertura consapevole all’innovazione tecnologica sostenibile e la tensione, etica e pragmatica, a trasportare il nostro patrimonio di biodiversità nel futuro.

Da “L’eccelenza non basta – L’economia paziente che serve all’Italia” di Paolo Manfredi, Egea, 160 pagine, 17,10 euro

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