In tema di transizione energetica, obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 e di neutralità tecnologica, l’Unione europea sta facendo i suoi compiti a casa. Adesso è però arrivato il momento che anche il governo italiano faccia la sua parte. Perché se è bene che si sia impegnato per l’introduzione dei biocarburanti nel percorso della decarbonizzazione dei trasporti, questo risultato da solo non risolverà certo tutti i problemi: ora c’è da risolvere la lentezza con cui il Paese si sta muovendo sul versante della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Il che significa soprattutto solare ed eolico.
Insomma, se il riconoscimento dei biocarburanti nella decarbonizzazione europea e italiana ci ha risolto un problema di riconversione di una grossa parte dell’industria petrolifera, è anche vero, al tempo stesso, che questo non ci esime dal raggiungimento degli altri obiettivi europei. E, soprattutto, il mix energetico italiano sulla mobilità sembra troppo sbilanciato sui biocarburanti, come rileva uno studio di inizio dicembre di Transport & Environment (T&E), organizzazione internazionale non profit sui temi della mobilità sostenibile. Il nodo resta dunque la produzione elettrica.
Come ha efficacemente riassunto un documento dello Studio Ambrosetti, prodotto lo scorso settembre, nel 2022 l’Italia ha generato duecentosettantasei terawattora di energia elettrica. Di questi, poco meno dei quattro quinti provengono da combustibili fossili (gas, petrolio, carbone), il dieci per cento dal solare, il sette per cento dall’eolico, l’undici per cento dall’idroelettrico e un residuo 1,8 per cento deriva da altre tecnologie come la geotermia, il moto ondoso e la bioenergia.
Per raggiungere gli obiettivi europei fissati al primo step del 2030 dovremmo installare tra i nove e i dieci gigawatt annui di nuova potenza energetica. Ma siamo ancora parecchio lontani. Nel solare sono di questi giorni le nuove polemiche che rischiano di bloccare l’installazione di nuovi campi fotovoltaici dalla Sicilia al Piemonte, dalla Puglia alla Toscana.
Uno studio di Legambiente dello scorso marzo rileva come sui circa 1.400 progetti di campi solari approvati a livello statale, solo l’un per cento ha ricevuto la convalida a livello regionale; l’anno prima le luci verdi delle Regioni si erano accese solo sul nove per cento del totale dei progetti. Peggio ancora va nell’eolico: per quello onshore, ossia a terra, nel 2020 le Regioni hanno dato via libera ad appena il quattro per cento dei progetti che avevano avuto il via libera a livello statale; quota che si abbassa all’un per cento nel 2021, mentre lo scorso anno non è stato approvato alcun progetto.
Eppure è proprio nell’eolico che potremmo avere grandi potenzialità. C’è infatti una tecnologia recente che promette lo sviluppo di impianti riducendo al tempo stesso ogni tipo di battaglie Nimby (Not in my backyard). Sono le pale eoliche offshore, ossia in mare aperto, installate su piattaforme galleggianti. In gergo tecnico è l’eolico floating offshore. Sono strutture simili alle piattaforme petrolifere, vengono costruite nei cantieri e poi posizionate nei luoghi prescelti. È una tecnologia nuova, ma che ha già superato la fase dei prototipi ed è in quella dello sviluppo industriale. I primi a partire sono stati i britannici, che ne hanno realizzate al largo della costa scozzese, ma anche i francesi si stanno muovendo. Noi siamo ancora alla fase della discussione delle regole. Ma il tempo non è tanto.
L’eolico galleggiante offshore è una opportunità reale. Intanto, rispetto a quello fissato sui fondali, presenta due sostanziosi vantaggi. Il primo è che è di acciaio e non di cemento, il che vuol dire che è interamente riciclabile a fine vita. Essendo poi simile alle piattaforme petrolifere, vuole anche dire che abbiamo un’industria made in Italy che è pronta a realizzarli: l’ilva per l’acciaio, la Fincantieri per la realizzazione a terra delle strutture, società come Saipem in grado di gestirne il posizionamento. Il che non è poco.
Ma c’è un secondo vantaggio: le strutture flottanti possono essere ancorate anche in fondali più profondi rispetto a quelli dove si posizionano attualmente le piattaforme fisse. Siamo sugli ottanta-novanta metri di profondità. E questo vuol dire che si possono mettere più a largo, più lontane dalla terraferma con due ulteriori benefici: si possono raggiungere aree molto più ventose, dove quindi la produzione elettrica delle pale è più elevata; sono anche più lontane e di fatto invisibili dalla costa, il che dovrebbe garantire una minore reazione di quanti si battono contro le pale eoliche in mare per il loro impatto sul paesaggio marino visto dai Paesi costieri (con buona pace dell’elevatissimo consumo di territorio e cementificazione degli stessi paesaggi, ma con lo sguardo rivolto verso l’entroterra).
Tutto è dunque pronto per partire, ma manca ancora un aspetto: la programmazione. E che per l’industria è fondamentale. La Strategia per lo sviluppo dell’energia rinnovabile offshore dell’Unione europea, data novembre 2020 – fanno sapere dal ministero dell’Ambiente e della Transizione ecologica – punta a incrementare la propria capacità eolica offshore dagli attuali dodici gigawatt ad almeno sessanta gigawatt entro il 2030, e a trecento gigawatt entro il 2050.
Per questo anche la proposta di aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) contiene obiettivi più ambiziosi del precedente piano, portando la nuova potenza installata di impianti eolici offshore fino a 2,1 gigawatt di eolico galleggiante già al 2030. Per raggiungere questo obiettivo, si calcola che nei prossimi sei anni bisognerebbe produrre e collocare trenta “floater”, ossia trenta piattaforma galleggianti ogni anno.
Poiché ogni piattaforma consuma quattromila tonnellate di acciaio, servirebbe un quantitativo di acciaio di circa centoventimila tonnellate l’anno. Per capire che cosa significano, basti pensare che oggi Fincantieri usa annualmente centoquarantamila tonnellate di acciaio. Dovrebbe raddoppiare la sua capacità produttiva. E anche l’Ilva dovrebbe riprogrammarsi per assicurare una simile fornitura. D’altra parte cantieri e acciaio per le piattaforme sono proprio i componenti che possono interessare l’industria italiana in questa avventura. Assieme valgono il trentacinque per cento del valore dell’intera piattaforma, Un altro trentacinque per cento è dato dalle turbine delle pale eoliche.
Progetti di questa portata non sono destinati a essere assegnati ad un unico soggetto. Si stanno infatti già formando i primi consorzi. In Scozia, dove è stata aggiudicata la prima gara. E in Francia, dove la procedura è in via di assegnazione. I Paesi che bandiscono le gare hanno ovviamente anche più voce in capitolo nella formazione dei consorzi, come è sempre accaduto. Così, prima si entra in partita e prima si può giocare un ruolo a livello europeo. Da noi che cosa manca?
Manca la definizione delle regole. Chi assegna le concessioni e come. Finora in Europa ci sono stati due approcci diversi. I Paesi del nord Europa hanno scelto la strada delle aste per la concessione dei diritti di sfruttamento dei fondali. Si decide un prezzo base, con lotti di fornitura energetica molto grandi, sui duecentocinquanta gigawatt; si formano le cordate delle imprese offerenti e chi vince decide poi i prezzi dell’energia in base ai suoi costi. A sud, e la Francia ne è un buon esempio, si è scelta una strada diversa. I lotti sono più piccoli, da un quarto di gigawatt, ossia duecentocinquanta megawatt, ma con un prezzo prefissato di vendita dell’energia.
La Scozia punta dunque su progetti più grandi e meno regolamentati, e con questa procedura, poche gare e temi rapidi, punta ad avere di qui a cinque anni (ce ne vogliono quattro di anni dal via al progetto alla prima produzione di energia) il primo gigawatt di energia prodotta. In Francia, i progetti sono più piccoli, e sono quindi molti di più, così come le gare, per favorire la partecipazione di imprese più piccole.
I tempi però si allungano e si calcola che tra cinque anni la produzione dell’eolico flottante offshore francese sarà ancora di poche centinaia di megawatt. L’Italia? Deve ancora decidere. E se il ministero non deciderà entro il primo trimestre del 2024, l’allungamento dei tempi rischia di farci bucare gli obiettivi al 2030, dove per l’eolico si stima una produzione pari a quasi un quarto (ventitré per cento) del fabbisogno energetico totale del Paese, con il flottante offshore al dieci per cento.
Il grande timore è quello solito dell’indecisionismo italiano, ben suddiviso tra governo, Parlamento e istituzioni locali. Al momento in Italia c’è un unico impianto di eolico flottante: è un prototipo a largo della costa di Taranto, e produce gli unici trenta megawatt che le statistiche europee assegnano all’eolico flottante italiano. Il fatto è che per realizzarlo ci sono voluti quattordici anni.
Insomma, avevamo individuato questa tecnologia già nel 2009, ed eravamo anche partiti per tempo. Ma poi gli iter burocratici e le procedure hanno come al solito prevalso. Al momento, il ministero guidato da Gilberto Pichetto Fratin ha optato per una classica politica dei due tempi. Intanto si raccolgono candidature, manifestazioni di interesse e ipotesi di progetti. A fare da collettore di tutte queste proposte sono le capitanerie di porto, che dipendono dal ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture di Matteo Salvini.
A vagliarle è Terna. Il problema è che sono già arrivate proposte che superano una produzione potenziale di eolico flottante offshore di cento gigawatt, ossia ben oltre gli obiettivi del nostro piano energetico nazionale. Un segnale di più che serve coordinazione e più rapidità nella definizione delle regole per evitare fatiche inutili e spreco di risorse: per esempio, molti dei progetti presentati sarebbero carenti sul fronte delle infrastrutture portuali che devono fare da necessario supporto alla produzione elettrica delle pale in mare.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dice di essere riuscita a convincere i vertici europei delle nostre buone ragioni in materia di biocarburanti e non solo (anche se il voto del 18 dicembre del Consiglio europeo sul regolamento packaging, che rischia di mettere fuori gioco tutta l’industria italiana del riciclo e della raccolta differenziata, sembrerebbe segnare un passo indietro). Adesso deve dimostrare di saper convincere anche i suoi ministri, i suoi parlamentari e, cosa ancora più ardua, i suoi amministratori locali.