Merenda letterariaGli scrittori pezzenti, il melone già tagliato e gli uomini come nuove fighe

Mi sono ritrovata a una cena con persone che non hanno fatto nemmeno finta di voler pagare il conto, una di quelle cose che noi signore del Novecento diamo per scontate. Poi ho scoperto che gli autori da vetta delle classifiche fanno anche di peggio, tipo la schiscetta

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Questa è una storia di meloni che non sono solo meloni, ma possenti allegorie. Questa è una storia di scrocconi e letterati. Questa è una storia di cose che accadono e sono come domande, e poi passano mesi e quasi te n’eri dimenticata ma la vita risponde. Questa è una storia di catene, bastonate, e tirchieria sperimentale.

Tutto comincia a un festival letterario, a una cena cattiva come lo sono le cene nei posti in cui offrono i festival, a un tavolo al quale decido che passi mangiare male, ma bere male proprio non si può. Di fronte a me è seduto uno scrittore pubblicato da casa editrice scicchissima. Lo chiameremo d’ora in poi: lo Scrittore Dichiaratamente Pezzente.

Esistono, lo sappiamo tutti, due tipi di valuta. Una è quella della conversazione: se sei brillante, se intrattieni la tavolata, se sei l’anima della festa, puoi non fare neanche il gesto di pagare il conto. Se sei avvincente come la pittura che asciuga – espressione bolognese che indica il fatto che più appassionante di te è persino la mano di bianco sul muro – allora sarà meglio che tu sia munifico.

Ho avuto per anni un amico sgradevolissimo, con un carattere persino peggiore del mio, e che, nonostante fosse al corrente di moltissimi pettegolezzi, per etica professionale non poteva mai riferirli. Per scusarsi della sua fastidiosa inutilità, egli pagava tutti i conti. Era un po’ il minimo.

Dunque siamo a questo festival, davanti a me lo SDP, e io chiedo al cameriere due bottiglie di un vino che mi piace. Il cameriere si preoccupa, questi intellettuali poi sono insolventi, lo rassicuro: possiamo permettercelo. Quel vino normalmente costa intorno ai quaranta euro.

Per tutta la cena lo SDP non dice mai niente. Né lui né l’amico che si è portato, muti. Mentre io e uno scrittore al mio fianco intratteniamo loro due e altre due signore nostre commensali, e tutti si versano allegramente da bere.

A fine cena vado alla cassa, inseguita dalle signore che dicono «Ma no, paghiamone una a testa». Faccio la splendida, a parte il piccolo problema cardiologico quando scopro che, in questo posto dove non manderei a mangiare neanche la servitù di casa, quel vino è a cento euro a bottiglia. Ma che problema c’è, pago duecento euro, sono una signora, una con tutte stelle nella vita.

Le signore si profondono in ringraziamenti, lo SDP neanche mi dice «Crepa». È in quel momento che mi ricordo dei miei ex vicini di casa. Ho abitato per anni davanti a un supermercato. Tornavo coi sacchetti, tentavo di tenerli in equilibrio mentre con una terza mano ravanavo le tasche alla ricerca delle chiavi, e in quel momento arrivava sempre qualcuno che apriva il portone e lasciava che mi si chiudesse in faccia senza offrirsi di reggerlo.

Erano – sempre, senza eccezioni, ogni volta – uomini. Uomini che sono evidentemente le nuove fighe, uomini convinti tu sia tenuta a offrire loro il vino, uomini cui non viene minimamente in mente di doverti reggere il portone, o cedere il posto in metrò, o fare una qualunque di quelle cose che noi signore del Novecento ci ostiniamo a dare per scontate.

A un certo punto, esasperata dal portone in faccia, ho iniziato a reagire sempre nello stesso modo. Loro non reggevano il portone, e io urlavo: vi deve cascare il cazzo. Che è quel che penso alla cassa dei ricaricatori di vino, mentre lo SDP e il suo amico se ne vanno col loro bravo barrique nello stomaco: vi deve cascare il cazzo. Non urlo, perché ci manca oltre al danno dei duecento euro la beffa d’essere la pazza che ha dato spettacolo alla cassa.

Avanzamento veloce alla mattina dopo. Siamo, io e l’altro intrattenitore della tavolata, a fare colazione, e nella sala colazioni c’è anche lo SDP, e io sto bofonchiando ma ti rendi conto, ma gli deve cascare il cazzo, quando a un tavolo vicino al nostro si siede un noto nome da cima delle classifiche di vendita. Lo chiameremo d’ora in poi: lo Scrittore Inaspettatamente Pezzente.

Dopo un po’ il mio commensale gli dice qualcosa, lui risponde, io mi volto, e noto che, mentre parla, lo SIP sta rovesciando due scodelle riempite al buffet dentro due tovaglioli. Ma ti stai facendo la schiscetta?, domando con un certo divertimento. Lui dice di sì senz’alcun imbarazzo apparente, così mangia in treno, parte un paio d’ore dopo. Abbiamo lo stesso treno, scopro, e faremo scalo nella stessa città. Me ne dimentico un attimo dopo, ma me ne ricordo all’arrivo nella città dove entrambi dobbiamo prendere la coincidenza.

Arrivo alla sala d’attesa Frecciarossa, le cui porte si aprono col codice del biglietto di prima classe o della carta oro. Lui probabilmente non si è pagato la prima classe (figurati se te la pagano i festival che ti mandano a cenare con vini imbevibili), e lo trovo lì davanti che non riesce a entrare.

Che problema c’è, apro io, annuncio garrula, lieta di avere un nuovo interlocutore cui raccontare che ho pagato il vino allo SDP e che gli deve cascare il cazzo (dal primo treno ho chiamato praticamente tutta la rubrica telefonica per raccontare quello che ancora per qualche minuto sarà il mio aneddoto preferito di quei giorni).

Entro e vado dritta in bagno. Quando ne esco, lo SIP sta tornando alla sua poltroncina. Viene da una visita al buffet. Ha tre cofane di cibo impilate, e si accinge a infilarle nello zaino. Ma di nuovo?, esalo, improvvisamente sospettando che non sia il conversatore adatto per condividere l’indignazione che nessuno abbia detto dei duecento euro di vino «ma per carità, faccio io».

Lo SIP mi dice certo, così faccio merenda, però temo non basti fino a stasera, quando arrivo mi tocca comprare qualcosa per cena. È in effetti disdicevole che non ci sia un festival, un’azienda di trasporti, un qualcuno o qualcosa cui scroccare anche la cena, penso.

Cosa vendi centinaia di migliaia di copie a fare, se poi vivi di cibi da buffet su cui hanno sputato viaggiatori sconosciuti? Cosa sei uno scrittore di successo a fare, se poi vivi come un’iscritta al gruppo Le econome di Facebook? A cosa servono tutti quei posti in classifica, se senti ancora le ferite di quand’eri poco ricco? Sono domande che per giorni faccio a qualunque persona con cui parli, narrando il mio nuovo aneddoto preferito (i festival sono inutilissimi per vendere libri, ma preziosi per far cascina di aneddoti).

Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Risponde dal Minnesota, dove la settimana scorsa sono morte due persone, e ne sono state ricoverate un centinaio. Contagio di salmonella da melone già tagliato, dicono i giornali locali.

Il melone già tagliato è stato per anni il mio grande senso di colpa, lo compro sempre e fischietto sempre quando le mie amiche ecologiste fotografano indignate le confezioni al supermercato chiedendosi chi siano mai gli insensibili che mettono in circolo tutta quella plastica per non sbucciarsi il melone.

L’insensibile in me ci aveva pensato, all’ecologia, anche nel vedere il melone tagliato che lo SIP metteva nel tovagliolo, e poi il melone tagliato in cofana di plastica che infilava nello zaino centinaia di chilometri più in là.

Adesso, che quei favolosi giorni di scrittori scrocconi hanno riformato il mio immaginario, il melone tagliato mi fa pensare solo allo SIP. E quindi l’unica cosa che vorrei sapere, e che i giornali americani non mi dicono, è: in Minnesota ci sono festival letterari, o la salmonella si prende a pagamento?

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