«Ti voglio bene». George Perry Floyd Jr. esprimeva lo stesso sentimento a uomini, donne e bambini; parenti, vecchi amici ed estranei; amanti, semplici conoscenze e donne comprese fra questi due estremi; prostitute incallite e drogati senza tetto; persone famosissime e anonimi vicini di casa. Floyd ripeteva la frase talmente spesso che molti amici e familiari non hanno dubbi sulle ultime parole che ha detto loro. […]
Come milioni di americani, nell’estate del 2020 abbiamo guardato inorriditi il video dell’omicidio di Floyd che passava e ripassava nei notiziari e sui social. Lo sconvolgente filmato ci ha spinti a intraprendere una missione di approfondimento non solo per capire i fatali nove minuti e ventinove secondi in cui Floyd ha lottato per respirare, ma per sollevare il velo sulla vita di fatiche che li aveva preceduti e per comprendere l’essenza del movimento per i diritti civili che è venuto dopo.
Questa missione ci ha condotto dove non avremmo mai immaginato di arrivare seguendo due domande di fondo: Chi era George Floyd? E com’era vivere nella sua America? Mentre rispondevamo a queste domande siamo sfuggiti a dei colpi d’arma da fuoco dopo aver passato del tempo con il suo compagno di stanza a George Floyd Square, il memoriale che è sorto a Minneapolis nel punto in cui è stato ucciso. Siamo stati a cena una domenica con la sua numerosa famiglia allargata, mangiando la crostata di mirtilli e le patate dolci che gli piacevano tanto. Ci siamo fatti tagliare i capelli dal suo barbiere, al quale confidava i suoi più profondi tumulti interiori.
Abbiamo attraversato il quartiere di Third Ward a Houston con gli amici più cari di Floyd, ascoltandoli ridere su vecchi ricordi e piangere di dolore per una vita tragicamente troncata. Siamo andati in chiesa con suo fratello e alla lettura dei tarocchi con la sua ragazza mentre tentavano di dare un senso al tutto, e poi ci siamo seduti con loro mentre crollavano di fronte alla loro incapacità di farlo. Le persone amate da Floyd hanno reagito con un livello di schiettezza e di trasparenza che ci ha comunicato un vivido senso della sua umanità. I loro ricordi ci hanno aiutato a rivelare le soffocanti e sistematiche pressioni a cui Floyd alla fine non ha potuto sfuggire, pur avendo tentato più volte di resettare la sua vita e di superare il suo passato. […]
Ma più venivamo a sapere del viaggio di Floyd, più ci si chiariva che la sua vita costituisce anche un esempio tangibile di come il razzismo opera in America. La storia di Floyd, e la storia della sua famiglia, contiene molti dei traumi che si accumulano senza sosta e che caratterizzano l’esperienza dei neri da quattrocento anni. Qui noi abbiamo documentato la lotta di Floyd per respirare da nero in America, una battaglia incominciata molto prima che il ginocchio di un poliziotto gli si posasse sul collo.
Quando George Floyd fece il primo respiro nel 1973, le limitazioni dovute alla discriminazione in stile Jim Crow avevano ceduto il posto a quella che sarebbe diventata una forma di razzismo più duratura e insidiosa, una versione sistematica destinata a calcificarsi sotto la superficie della società americana. Le radici della sua storia erano nate secoli prima di lui, con successive generazioni di antenati che combattevano i mali della schiavitù, della mezzadria violenta, della segregazione legale e della miseria intergenerazionale dall’epoca della guerra civile a quella dei diritti civili.
Mentre cresceva negli anni ottanta e novanta, Floyd sperimentava i residui di quel razzismo esplicito rintanato dentro alle istituzioni americane, che veniva radicandosi in un modo superficialmente più accettabile, ma che produceva comunque una stratificazione razziale più da sistema basato sulle caste che da democrazia meritocratica.
Crescendo in una delle metropoli più variegate del paese, Floyd viveva in un quartiere segregato dal punto di vista razziale perché il governo l’aveva progettato così. Le fatiscenti case popolari dette Cuney Homes, le più antiche di Houston, erano delle moderne sabbie mobili di miseria da cui Floyd lottava per scappare. Frequentava scuole segregate nel Third Ward di Houston, dove il sistema scolastico statale incanalava gli studenti neri in aule con sovvenzioni insufficienti – e ne spingeva alcuni, fra cui Floyd, a credere che lo sport fosse l’unica strada per il successo.
La polizia era una presenza costante nella vita di Floyd: l’ha molestato, arrestato e minacciato da quand’era bambino agli ultimi istanti di vita. Nella sua vita è stato incarcerato complessivamente più di venti volte e almeno cinque degli agenti che l’hanno arrestato sono stati poi accusati di aver infranto le leggi che dovevano far rispettare. Floyd ha trascorso quasi un terzo della sua vita adulta dietro le sbarre, in un’epoca di incarcerazione di massa che ha preso di mira in modo sproporzionato i neri per reati di droga non violenti e ha decimato intere comunità.
Derek Chauvin, l’agente che ha ucciso Floyd, ha lavorato per decenni nel sistema di polizia di un paese che imprigionava più persone di qualunque altro. Abbiamo dedicato un capitolo all’analisi del suo viaggio americano e alla storia del dipartimento di polizia che l’ha addestrato a usare una forza mortale. Floyd temeva da tempo di morire per mano della polizia, ma la sua lotta per restare vivo è stata resa più complessa dal fatto che soffriva di una serie di malattie che abbreviano in maniera sproporzionata la vita dei neri. Oltre al Covid-19, lottava contro la claustrofobia, l’alta pressione sanguigna, l’ansia e la depressione – malanni per lo più non curati – oltre alla dipendenza da droghe.
Floyd ha riconosciuto per tempo i suoi sbagli e gli errori che gli rendevano la redenzione tanto più difficile. Piangeva con gli amici per le decisioni di cui si pentiva e per la disperazione che a volte provava. «Ho i miei limiti e i miei difetti», diceva in uno dei video postati sui social. «Non sono migliore di nessuno».
Vivere il nostro viaggio americano da neri ci ha aiutato a cogliere l’essenza di Floyd e a mettere in rapporto le sue esperienze – le sue insicurezze per la propria stazza e per il colore della propria pelle, la sua consapevolezza che a volte bastava la sua presenza per suscitare paura negli estranei, il suo nervosismo di fronte alla polizia, la sua sensazione che, come ha detto una volta, «la gente fa presto a escluderti, ma ragazzi, come fa fatica a includerti». La nostra speranza era di collocare le esperienze di Floyd nel contesto nelle innumerevoli forze che sono intervenute sullo sfondo durante i suoi quarantasei anni, senza mai assolverlo dalle sue responsabilità e senza mai cercare scuse per le sue azioni.
Da giornalisti che, insieme, facciamo più di trent’anni di esperienza, molta acquisita al Washington Post, abbiamo raccontato l’impatto della politica e delle sue scelte sulla vita americana, dalla Casa Bianca e il Congresso alle sedi sindacali, agli allevamenti di bestiame, agli step show universitari e alle proteste per la giustizia razziale in tutto il paese. Abbiamo avuto accesso al vasto archivio storico del giornalismo politico del Post, che ci ha aiutato ad analizzare le numerose scelte politiche che hanno influito sulla vita di Floyd, dai codici dell’Ottocento che vietavano ai suoi antenati schiavi di imparare a leggere alle leggi antidroga del Novecento che hanno criminalizzato la sua dipendenza. Abbiamo anche potuto approfittare della risorsa più preziosa del Post: i suoi giornalisti. Questa biografia non sarebbe stata possibile senza gli articoli originali del premiato reportage “George Floyd’s America”, che comprendevano più di centocinquanta interviste sulla vita e le circostanze di Floyd. […]
Il quadro che emergeva dal reportage e dal nostro successivo anno di inchiesta è quello di un uomo che affronta una lotta straordinaria con speranza e ottimismo, un uomo che è riuscito a fare nella morte quello che voleva così disperatamente ottenere in vita: cambiare il mondo. Durante l’impetuosa estate di attivismo seguita alla scomparsa di Floyd, il suo nome è stato pronunciato da presidenti, da primi ministri e dal papa. La sua immagine è comparsa su murales e in musei di tutto il mondo. E la sua fama postuma ha costretto sia chi lo conosceva intimamente sia gli estranei che l’hanno solo visto morire a riconciliare l’uomo, il simbolo che è diventato, e i sistemi che hanno azzoppato le sue ambizioni e bloccato le sue possibilità.
Legislatori, dipartimenti di polizia e corporazioni hanno invocato il suo nome, precipitandosi a partecipare alla battaglia contro l’ingiustizia razziale. Membri del Congresso hanno legato il suo nome a leggi finalizzate ad affrontare i mali del razzismo americano. Il suo nome è diventato lo slogan di un movimento che dichiarava che vite come la sua contano. Mamme bianche benestanti manifestano accanto a ragazzi neri poveri per chiedere che il loro paese li tratti nello stesso modo. Insieme gridavano «Say his name!», dite il suo nome, e insieme rispondevano all’invito con rabbia, frustrazione e decisione. Il suo nome, dichiaravano, è George Floyd.