La grande crescita dell’occupazione, confermata anche dagli ultimi dati sui mesi autunnali, non è una novità. Già prima del Covid era evidente come il numero dei lavoratori stesse aumentando anche più del Prodotto interno lordo e del valore aggiunto, tendenza che si è ripresentata anche negli scorsi anni, e non a caso la produttività del lavoro ha il segno meno davanti. Ancora più interessante è come tale incremento dell’occupazione si sta distribuendo, chi ne sta beneficiando, anche perché questo ha implicazioni politiche e sociali non da poco. Per la prima volta nel mese di agosto i lavoratori tra i cinquanta e i sessantaquattro anni, in aumento, hanno superato in valore assoluto quelli tra i trentacinque e i quarantanove anni, in calo. In ottobre la differenza è stata di più di centocinquantamila unità.
È solo una questione demografica, dovuta al fatto che sono entrati nella coorte tra i trentacinque e i quarantanove anni coloro che sono nati tra il 1974 e il 1988, ovvero in un periodo di forte calo della natalità? Non proprio, anche il tasso di occupazione, ovvero la percentuale di lavoratori sulla popolazione, è cresciuto meno in questa fascia di età che nelle altre, del 4,9 per cento in dieci anni e del 2,8 per cento in cinque, mentre quello di chi ha tra venticinque e trentaquattro anni è aumentato rispettivamente del 9,7 e del sette per cento. Per i cinquantenni e sessantenni, invece, ci sono stati incrementi dell’11,6 e del 3,5 per cento. Solo gli under venticinque hanno fatto leggermente peggio, a causa della sempre maggiore popolarità degli studi universitari.
In ottobre l’Istat ha misurato anche la variazione annuale di occupati, disoccupati e inattivi proprio al netto dell’effetto demografico appena citato. Ebbene, la fascia dei nati tra 1974 e 1988 non è solo quella che ha visto il minor incremento di quanti hanno un lavoro, +1,1 per cento, ma anche il maggiore aumento di quanti il lavoro lo cercano e non lo trovano, +4,9 per cento, anche se parallelamente sono scesi molto gli inattivi, -5,8 per cento.
Certo, si potrebbe pensare, tra i trentacinque e i quarantanove anni già lavorano in tantissimi, più di tre quarti, è difficile che possano aumentare ancora. Eppure in un Paese a noi simile come la Spagna è accaduto. Il divario tra il nostro tasso di occupazione generale e quello spagnolo è peggiorato a nostro sfavore negli ultimi dieci anni, ma ancora di più lo abbia fatto quello che riguarda i quarantenni. In particolare tra i quarantacinque-quarantanovenni nel 2013 in Italia la percentuale dei lavoratori era di più del sei per cento maggiore che a Madrid, mentre ora è del 4,1 per cento più bassa.
Tutta la forza lavoro, ovvero coloro che hanno tra quindici e sessantaquattro anni, ha visto una traiettoria simile, ma molto meno marcata, si è passati da un tasso di occupazione italiano maggiore dello 0,8 per cento a uno minore del 4,2 per cento. Anche l’andamento del segmento tra i quaranta e i quarantaquattro anni è stato peggiore di quello medio, mentre per chi ha tra venticinque e ventinove anni non vi sono stati peggioramenti nel confronto con i numeri spagnoli. Certo, in quest’ultimo caso il gap coi coetanei iberici rimane enorme, per cause antiche, ma è diminuito, al contrario di quanto avvenuto tra i quarantenni.
Cosa è accaduto? C’è un dato che è interessante a questo proposito, è il trend dei laureati in base all’età in Europa. Nel caso di chi ha tra trentacinque e cinquantaquattro anni il dato italiano è salito meno che altrove. Solo un quarto dei trentacinque-quarantaquattrenni e il 17,9 per cento dei quarantacinque-cinquantaquattrenni ha un titolo universitario. Sono molti meno che in Francia e in Germania, nonché che in Spagna e in Polonia, dove venti e trent’anni fa i numeri erano invece piuttosto simili ai nostri.
Certo, il tasso dei laureati in Italia è minore che nel resto d’Europa per tutte le fasce di età, ma è proprio nel caso di queste due che il gap rispetto alla media Ue è più grande – del 14,6 per cento per i trentacinque-
L’istruzione conta, ma probabilmente non è l’unico fattore. Ormai molti giovani della generazione Z tendono ad accomunare i quarantenni ai boomer, è normale a vent’anni vedere come vecchi anche chi ha ne ha solo quarantacinque. Eppure questa generazione di mezzo, a cavallo tra la X e quella dei millennial, non potrebbe essere più diversa da quella precedente dal punto di vista economico. È stata la prima a scoprire la precarietà, e non dare più per scontato la crescita del Pil e soprattutto degli stipendi, ha vissuto la crisi peggiore, quella del 2008-2013, che in Italia, ora possiamo dirlo, è stata molto più profonda di quella legata al Covid.
È stata la generazione dell’insicurezza, e le conseguenze si vedono: in un recente sondaggio di Swg sono proprio coloro che hanno più di quarantaquattro anni, ma meno di cinquantacinque, quelli che hanno meno fiducia nei leader politici italiani. E alle elezioni del 2022 per Ipsos è tra i trentacinque-quarantanovenni che hanno avuto il massimo dei voti coloro che, a torto o a ragione, si presentavano come anti-sistema, ovvero Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle, mentre sono andati peggio i partiti ritenuti rappresentanti dell’establishment.
Ora i quarantenni sono ancora lontani da una pensione che per loro sarà molto meno dorata di quella dei genitori, che spesso devono accudire, ma chi tra loro non ce l’ha fatta ha ormai perso il treno della carriera. Sono troppo vecchi per emigrare e non possono approfittare più di tanto di quell’eccesso di domanda di lavoratori che interessa alcuni settori e che sta beneficiando, invece, ventenni e trentenni. L’occupazione di questi ultimi, infatti, cresce in modo più rilevante.
Forse non c’è altra fascia di età che potrebbe beneficiare di più di quelle politiche di formazione e re-skilling che popolano i convegni e i report delle grandi aziende dell’HR, ma non i programmi dei governi.