La meglio gioventù La cucina di Sardegna si crea (e rimane) sull’Isola

Quarta edizione per il premio Mesa, organizzato da Gavino Sanna, patron della cantina omonima. Un riconoscimento che va ai migliori giovani chef sardi che lavorano nel territorio

I vincitori del Premio Mesa

In mezzo a tanti premi, riconoscimenti e guide, ci sono anche momenti diversi. Più raccolti, magari meno conosciuti, ma con un’anima talmente forte da incarnare la statura di un gigante. C’è il Premio Mesa, giunto alla sua quarta edizione, che celebra il meglio della gioventù gastronomica sarda. 

Gavino Sanna lo conosciamo tutti, uno dei più grandi pubblicitari del nostro tempo, uno dei Maestri, utilizzando l’apice in maiuscolo apposta. È anche il patron di una cantina in Sardegna, affacciata a sud nelle terrazze sfrontate di maestrale e di dune di sabbia enormi e accecanti.

Cantina Mesa è Sulcis, nel senso più pieno del termine. Sorge in una valle, nella terra di Sant’Anna Arresi, riparata dal vento, ma coccolata dal Mediterraneo. E può essere, a ragione, la descrizione didattica di una delle regioni storiche dell’Isola più identitarie, ma allo stesso tempo contaminate nei millenni da conquistatori e popoli lontani. Oltre settanta ettari di terra, coltivata secondo le varie peculiarità degli appezzamenti, il Vermentino, il Carignano, le bottiglie che ricordano nella forma la sagoma delle donne sarde, vestite nei loro abiti tradizionali. 

«Vogliamo raccontarvi la storia di una terra meravigliosa. Un’isola generosa come una madre, che offre tutto quello che ha; le sue ricchezze e le sue sfumature, i suoi aromi e i suoi profumi, la sua anima e il suo sapere. Una terra dove mare e cielo sembrano una luce sola, dove le uve crescono in collina circondate dall’abbraccio di una natura premurosa, cullate dal sole e accarezzate dal vento che porta i profumi del Mar Mediterraneo».

Questa è la filosofia della Cantina Mesa, che coincide totalmente con il pensiero del suo creatore. Pensiero che è stato trasmesso anche al premio che porta lo stesso nome («Ho ideato questo premio, ancora prima di sapere come si facesse il vino»). Mesa in sardo vuol dire tavola: quella in cui si prepara il pane, quella con cui si condivide il pasto e anche quello dove si rende grazie a Dio. Una parola che invita alla condivisione, di quotidianità, di vita e di valori. 

Non è la visione comunitaria stessa della cucina? Ecco che allora questo premio, in mezzo alle guide e riconoscimenti di cui abbiamo fatto accenno, prende tutto un altro significato. Acquisisce sostanza perché, nonostante venga organizzato, da due anni, a Milano, vuole celebrare la bravura degli chef sardi più giovani. Giovani e coraggiosi, perché hanno scelto di restare in un’isola che sa essere sì magnetica e generosa, ma che allo stesso tempo può togliere opportunità e occasioni. Le stesse che si ricercano al di là del mare, quasi sempre. A meno di non voler provare a mettere radici nel territorio di origine. Come fanno i partecipanti al Premio Mesa. 

Quest’anno, hanno provato ad arrivare alla finale, nelle sale dell’Hub di Identità Golose di via Romagnosi, circa venticinque cuochi, giudicati su diversi parametri: territorialità, piacevolezza, originalità e abbinamento con una delle etichette Mesa. Un numero sempre maggiore rispetto alle edizioni precedenti, che vuole rimarcare come la ristorazione in Sardegna abbia voglia di farsi sentire. E non farsi sentire da emigrata, straniera, ma da stanziale e radicata nella terra. Anche il “premio” in palio ha polpa e sostanza: non un mero riconoscimento su carta, ma un corso intensivo all’Accademia di Niko Romito, guidata da Fabio Bucciarelli, a Castel di Sangro, su “Pane e Lievitati con Grani Antichi”. 

Questa voglia di identità, di tradizione vera, quindi quella che viaggia e si trasforma con il tempo e con i luoghi, è emersa anche in questo contesto, alla presentazione dei piatti di fronte ad una giuria di esperti: Paolo Marchi, ideatore e curatore di Identità Golose, Laura Pacelli, de La Cucina ItalianaPietro Pio Pitzalis, fondatore e direttore di Reporter Gourmet, Giovanni Fancello, giornalista, gastronomo e scrittore sardo, Sergio Mei, tra i massimi esponenti della cucina italiana e Alberto Piras, sommelier de Il Luogo di Aimo e Nadia.

Ad arrivare al primo posto è stato Alessandro Impera, sulcitano di Santadi, con un animo irrequieto dei cavalli di razza, così lo definiscono nelle retrovie, e diverse esperienze importanti, tra cui a Laqua di Cannavacciuolo. Il suo piatto è un ricordo, fatto di giornate in cui si cuoceva il pane nel forno a legna e poi, con la scopa di lentisco, si spazzavano via gli ultimi residui di cenere per cuocere l’agnello. Ed è l’agnello ad essere entrato nel cuore della giuria, presentato nella forma di una spalla brasata, con “sa tratalia”, piatto tradizionale della pastorizia realizzato con coratella di agnello arrostita, una terrina di patate al finocchietto selvatico. Per l’abbinamento con il vino è stato scelto l’Opale, Vermentino di Sardegna Doc, che, con i sentori di macchia mediterranea, va a sposarsi con il ricordo che lo chef lega al suo piatto. 

Santa Margherita

Nella triade del Premio Mesa compare anche Alberto Sanna, chef dell’esclusivissimo Capo Spartivento, location meravigliosa in un faro a sud della Sardegna, abbandonato per tanti anni e poi riscoperto, un’architettura di luce, che da oltre 160 anni illumina il cammino dei naviganti, dove la cura al cliente diventa maniacale, avendo solo pochi coperti. Qui la protagonista è la pecora, carne indiscussamente identitaria di Sardegna, presentata in tartare, ma cotta in un brodo (sempre di pecora) distillato, insieme ad una cialda, prima essiccata e poi fritta, di filindeu, un formato di pasta tra i più complicati da realizzare in Italia e che oggi anche nell’Isola in pochi sanno produrre. 

Santa Margherita

Terzo chef Matteo Melis, del boutique hotel Is Cheas a San Vero Milis, piccolissimo borgo agricolo, a ridosso dei rilievi del Montiferru, che ha voluto testare la tradizione in maniera diversamente creativa: cappelletti di grano arso (qui siamo in Puglia), ripieni di polpo e patate (e qui torniamo in Sardegna), ragù di lumache piccanti, crudo di muggine, crumble di civraxiu (pane tipico sardo del Campidano, di grossa pezzatura, di semola e dal colore bruno) tostato alla liquirizia e olio al finocchietto. 

Santa Margherita

Entrambe le proposte sono state abbinate al Rosa Grande, un vino rosato creato con uvaggio di vermentino e syrah, che lascia vincere i piatti, in questo caso così decisi e anche selvatici, senza sovrapporsi, ma accompagnandoli. 

Pare che questi tre nomi li risentiremo presto. Noi attendiamo al varco, come sempre. Perché la cucina è giovane e l’ardore va premiato e incoraggiato. Certo però, serve anche avere delle strade da seguire, dei modelli da cui partire. E in Sardegna di modelli validi ce ne sono parecchi. Di sicuro uno di questi è Luigi Pomata, carlofortino doc, isolano nell’isola, che in questa serata di riconoscimenti, è stato eletto come conferma di una cucina sarda che c’è e che reclama il suo giusto posto. Sua la cena di conclusione della serata. Crème brûlée salata di fagiolini di Terraseo con seppie e calamari scottati, cipollotto, salsa al gin e salicornia; riso carnaroli al Vermentino, vongole alla bourguignonne, capperi e gel al prezzemolo; reale di tonno e maialino brado, i loro fondi, indivia brasata al miele; crema di fico d’India, cioccolato affumicato, scalogni al vino rosso e gelato all’arancio.

Lo chef carlofortino non ha raccontato la Sardegna, ma la sua Sardegna, che è cosa ben diversa da quella conosciuta ai più e narrata nelle guide gastronomiche turistiche. Luigi Pomata è l’uomo che parla con i tonni. E lo fa davvero. Ne santifica le carni e le trasforma in bocconi difficilmente dimenticabili, quasi fosse un rito. È sua, ad esempio, l’idea di creare conserve di tonno riserva, invecchiate di venticinque anni: il tonno come il vino, come poesia, racchiusa in una scatola in questo caso, e non in una bottiglia. Al Premio Mesa il tonno invecchiato non c’era, ma è stata messa in evidenza (e bene) una cosa. Il tonno chiama il rosso, rotondo, pieno, morbido, persistente. Come il Carignano del Sulcis Doc Riserva 2020, come in questo caso. E se riuscite a percepire insieme la consistenza scioglievole di seta del grasso delle carni di maiale e del tonno, allora avrete incontrato la perfezione.

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