Passare dalle prime pagine dei giornali ai trafiletti è il destino più temuto dai politici, ma è l’ordine del giorno per centinaia di indagati in Italia a cui non viene dedicata la stessa esposizione mediatica quando la loro posizione viene archiviata o quando tornano in libertà dopo un uso disinvolto della custodia cautelare. Lo stesso è accaduto a un cittadino italiano, uno dei tanti indagati (ma non ancora processati, e forse mai) nel cosiddetto Qatargate, scandalo politico di presunta corruzione e riciclaggio di denaro scoppiato nel dicembre 2022 che ha coinvolto alcuni eurodeputati ed ex parlamentari Ue. Le valigie piene di contanti sequestrate all’ex deputato europeo del Partito democratico Antonio Panzieri e fondatore della Ong Fight Impunity – il quale nel frattempo ha patteggiato una pena molto mite: un anno di reclusione e ottantamila euro di multa (e la confisca dei proventi delle attività criminali) – al suo ex collaboratore Francesco Giorgi e alla compagna di Giorgi, l’allora vicepresidente del Parlamento europeo, la socialista greca Eva Kaili, sono state sbrigativamente presentate come prova della fondatezza dell’intero teorema giudiziario e dell’accusa anche agli altri indagati.
Tra questi indagati c’è anche Niccolò Figà Talamanca, segretario generale di “Non c’è Pace senza Giustizia” (No PeaceWithout Justice), la Ong fondata da Marco Pannella e Emma Bonino nel 1994 per la protezione e la promozione dei diritti umani è stato arrestato a Bruxelles il 9 dicembre del 2022 con l’accusa infamante di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio. È stato liberato senza condizioni al termine del suo primo interrogatorio sugli addebiti, dopo quasi due mesi di detenzione. E solo l’Ansa ha rilanciato la notizia, in un trafiletto.
Dalla sua scarcerazione vive in un limbo giudiziario che rischia di trascinarsi a lungo: formalmente è ancora indagato, ma il processo forse non si farà mai. Il giudice istruttore Michel Claise, che l’ha arrestato, a giugno ha lasciato l’indagine dopo che si era scoperto che il figlio era in affari con il figlio di una eurodeputata vicina a Panzeri, la socialista belga Maria Arena. Il Procuratore federale Raphael Malagnini a fine ottobre è stato trasferito dal Consiglio superiore della magistratura belga all’ispettorato del lavoro della provincia di Liegi. La Corte d’Appello di Bruxelles ha aperto una inchiesta giudiziaria sulle violazioni commesse dagli inquirenti: un’inchiesta sull’inchiesta. La prima udienza però è fissata ad aprile 2024, e potrebbero passare anni prima di giungere a un esito definitivo di questa vicenda.
Invece Figà Talamanca protesta non solo la propria innocenza, ma la totale estraneità alla corruzione, sostenendo al contrario di essere una vittima incolpevole, ma non causale di questa vicenda, che potrebbe avere una fine anticipata, prima di qualunque giudizio, visto che il sequestro cautelare di oltre settecentomila euro dai conti di Non c’è Pace Senza Giustizia rischia non solo di bloccarne l’attività, ma di imporne la liquidazione. «Ho vissuto un trauma personale e familiare nel luogo che consideravo il più sicuro al mondo: sono stato arrestato a casa mia, a Bruxelles. Ho lavorato in posti ben più pericolosi del Belgio e in scenari di guerra con conflitti in corso. Ma è stato destabilizzante passare la propria vita a proteggere i diritti umani e vederseli in poche giorni costantemente violati proprio nel luogo dove vivo, dove lavoro, dove ho deciso di costruire la mia famiglia. Mi hanno arrestato mentre i miei figli erano a scuola e mia moglie all’estero. Mi hanno portato in un carcere fatiscente di Bruxelles, costruito nel 1880, ma le cui condizioni sono peggiori di allora in termini di sovraffollamento, agibilità e igiene».
Un anno dopo le indagini sembrano non portare da nessuna parte.
Ci sono state due indagini parallele e con criteri e finalità diverse. L’indagine europea, distinta e indipendente da quella belga, è stata condotta dal Registro Trasparenza per conto di Commissione, Parlamento e Consiglio. Questa indagine ha coinvolto la nostra associazione, Non c’è Pace Senza Giustizia, e si è conclusa a settembre, riconfermandoci nel Registro della Trasparenza e chiudendo il caso in ottobre, senza trovare violazioni e confermando la nostra aderenza al codice di condotta europeo. Pertanto, questo caso è considerato risolto. Diversamente, l’indagine belga rimane aperta. Non solo non è conclusa, ma temo che potrebbe non farlo mai, lasciandoci in una sorta di limbo giudiziario senza una decisione formale. Persino l’inchiesta giudiziaria sui metodi adottati, indegni secondo me di un paese civile, rischia di aggravare il danno, rimandando una risoluzione formale della vicenda giudiziaria a un futuro sempre più remoto.
Come sono stati quei due mesi di carcere preventivo?
Le prime due settimane sono state molto dure. Sono rimasto in cella senza mai poter uscire, senza poter ricevere visite da mia moglie, e senza alcun accesso al cortile o anche solo alla doccia, con la biancheria, costringendomi a mantenere la biancheria che avevo addosso quando mi hanno portato via di casa. Anche il mio avvocato la prima volta che è venuta a trovarmi ha fatto tre ore di anticamera solo per sentirsi dire che non era disponibile nessuno per venirmi a prendere dalla cella. Il carcere di Saint Gilles è stato condannato a più riprese per le condizioni di detenzione disumane e degradanti, e a buon ragione. Non credo che sia un caso che è quello che viene usato per la detenzione preventiva, come strumento di pressione. E dire che mi trovavo a due km in linea d’aria dalla sede del Parlamento europeo, il tempio della democrazia e della civiltà europea.
A chi dà la colpa della violazione di questi diritti?
Da una parte c’è un problema sistemico nel modo in cui sono condotte le indagini in Belgio, che si basano eccessivamente sulla confessione come “prova suprema” e sul carcere preventivo come metodo di pressione. Ci rimani finché non confessi, cosa confessi poco importa. Bisogna fare nomi, nomi, nomi. Perché facendo i nomi qualcun altro andrà in carcere, e alla fine qualcun’altro confesserà, quindi “l’ultima pedina” giustificherà le carcerazioni preventive precedenti. Io non avevo nulla da confessare, né nomi da fare, ma se avessi avuto qualcosa confessare, o se avessero arrestato anche i miei familiari, magari avrei ceduto alle pressioni, visti i metodi utilizzati, e gli avrei raccontato quello che volevano sentire.
Ci sono lati oscuri in questa vicenda?
Molti, a cominciare dal ruolo dei servizi segreti, non solo belgi ma anche servizi stranieri. Dal primo momento, e poi nel corso dell’indagine, hanno svolto un ruolo secondo me indebito. I servizi segreti non sono tenuti a fornire prove, ma sembra che qui in Belgio bastino le loro liste di persone presunte responsabili, senza specificare di cosa esattamente, per farti mettere in carcere. Anche perché nel sistema giudiziario belga, il giudice istruttore che è anche a capo degli inquirenti, quindi allo stesso tempo giudice e sceriffo.
Cosa le è successo subito dopo l’arresto?
Sono stato messo in una cella di sicurezza nel commissariato centrale di Bruxelles, la stessa dove dal 2017 in poi è aumentano il numero di morti all’anno. Una stanza tutta grigia con un neon sempre acceso e una porta di metallo. Per ore. Poi sono stato interrogato fino alle 04:00, con domande che non avevano senso. Nessun senso. Quella è la situazione ottimale per farsi dire proprio le cose che ti vuoi far dire. Oltre a essere una violazione dei diritti umani, ha anche pessimi risultati dal punto di vista della qualità dell’indagine.
Si sarà chiesto perché proprio lei ha subito un arresto e poi una custodia cautelare così dura.
Mi hanno detto che ero (e al momento sono) indagato per corruzione pubblica, associazione a delinquere e riciclaggio, ma non sono stato mai accusato di alcuna condotta o atto specifico in cui avrei commesso questi illeciti. Sono arrivato alla conclusione, pur non avendone le prove, di essere stato preso di mira per il mio impegno nel denunciare l’influenza nefasta in Europa, e plausibilmente anche in Belgio, di alcuni Paesi stranieri che sistematicamente violano i diritti umani. La mia Ong non si è limitata a denunciare le violazioni, ma ha chiesto sempre che i responsabili ne rispondessero davanti alla giustizia internazionale.
Facciamo i nomi: chi sono questi paesi stranieri?
Su di me, ma anche su un altro membro del board di “Non c’è Pace senza Giustizia”, Marco Perduca, c’è stata un’attività di dossieraggio e credit rating condotta da una società di Intelligence privata con base in Svizzera, la ALP Services, pagata dagli Emirati Arabi Uniti. Lo ha rivelato una inchiesta dell’European investigative Consortium. Non a caso buona parte della mia advocacy era volta a smascherare le cosiddette riforme dei sauditi. Abbiamo aiutato la fidanzata di Jamal Khashoggi a fare la sua campagna “Justice for Jamal”, portandola a più riprese al Parlamento europeo e all’ONU per far vedere il vero volto dell’Arabia Saudita e degli Emirati che hanno un enorme capacità di public relation. Quando si dice Dubai si pensa ai grattacieli non alla loro politica estera di sostegno ad Haftar e il gruppo Wagner nella Libia orientale, dei Janjawid (che adesso si chiamano Rapid reaction Force) in Darfur e i mercenari ciadiani. Abbiamo voluto smascherare queste condotte in una ricerca approfondita che abbiamo aiutato a redigere. Si chiama “Undue influence“, influenza indebita, presentato al Parlamento europeo a maggio del 2022 e che ha fatto molto scalpore. Questo è il paradosso: noi abbiamo denunciato l’influenza indebita di un Paese e veniamo puniti accusati di fare lo stesso.
L’immagine che ha dato il Qatargate è però quella di poca trasparenza dell’attività di lobbying al Parlamento europeo.
“Non c’è Pace senza Giustizia” non fa lobbying, ma advocacy. Sono due cose diverse. Noi non veniamo pagati per portare avanti cause per conto terzi. Vogliamo dare visibilità alle nostre cause di diritti umani. Volendo guardare in malafede quello che facciamo è vero che io alzavo il telefono e chiedevo a questo o a quell’eurodeputato di presentare un emendamento ad una risoluzione, e spesso trovavo chi lo avrebbe presentato. È vero che suggerivo punti per i discorsi e un eurodeputato, che magari li leggeva in plenaria senza cambiare una virgola. È vero anche che spesso e volentieri suggerivo alla Commissione dei diritti umani del Parlamento europeo il nome di una vittima o di un esperto da sentire in audizione in base al tema. È vero che come parte della nostra campagna avevamo rapporti diretti e forse anche influenti con i parlamentari. Tutto questo è vero, ma non solo non c’è nulla di male, è il nostro lavoro, ed è tutto alla luce del solo. Se c’è uno “scambio” è che loro ne escono più informati, e noi ne usciamo con le nostre priorità meglio rappresentate in Parlamento.
La Ong di Panzeri, la Fight Impunity, aveva sede insieme ad altre nello stesso ufficio di “Non c’è Pace senza Giustizia” a Bruxelles. Quali erano i suoi rapporti con lui?
Panzeri è stato un presidente della Sottocommissione dei diritti umani molto rispettato al Parlamento europeo. Avevamo un rapporto professionale buono. Ci rivolgevamo a lui come ci siamo rivolti ai presidenti dei Comitati dei diritti umani precedenti e successivi per chiedere che facessero audizioni su temi a noi cari, o per suggerire esperti o temi di trattare. Il fatto che fosse italiano ci ha permesso di avere un certo spazio. Quando Panzeri ha lasciato il Parlamento e ha creato una organizzazione non governativa per combattere le impunità nel mondo l’abbiamo reputata una cosa positiva, vista la sua esperienza e il livello dell’advisory board che aveva messo insieme. Per questo motivo gli abbiamo offerto di avere la sede legale nel nostro ufficio e di poter usare occasionalmente la stanza riunioni. Pagava un contributo alle spese di ufficio di centocinquanta euro al mese. Gli unici soldi che la nostra organizzazione abbia mai preso dall’ ong di Panzeri. Non l’abbiamo visto come un rivale ma anzi ma potenzialmente qualcuno che poteva spingere nella nostra stessa direzione con tutte le capacità e potenzialità di un politico che era stato dentro le istituzioni e aveva un rapporto stretto con gli eurodeputati. All’epoca nessuno poteva immaginare che avesse questo “secondo lavoro” in cui spingeva determinati interessi per denaro.
Qual è la conseguenza più dura che sta avendo il Qatargate su di lei e sulla sua Ong?
Certamente ciò che ha fatto alla nostra organizzazione Non c’è Pace Senza Giustizia che l’anno prossimo compie trenta anni di attività in favore dei diritti umani, anche in luoghi e su temi molto difficili. Ora deve superare un danno reputazione enorme, e anche dei danni materiali che permangono inspiegabilmente per volere delle autorità belghe: dal conto di “Non c’è Pace senza Giustizia” sono stati sequestrati quasi i due terzi dei fondi disponibili in via “cautelare”, rendendo quasi impossibili le attività. E forse era proprio questo l’obbiettivo di chi ci ha messo in mezzo a tutta questa storia. I sequestri cautelativi erano inspiegabili allora e lo sono ancora di più adesso che sono stato liberato senza alcuna pendenza. Ci sono delle conseguenze personali, sia materiali che immateriali. Per me e la mia famiglia è stato ed è ancora molto difficile, anche dal punto di vista pratico : ci hanno sequestrato tutti i risparmi, hanno sigillato un appartamento in montagna, e ci hanno tolto l’unica nostra fonte di reddito, perché da mesi lavoriamo sena stipendio. Per il dissequestro, dobbiamo aspettare la sempre più lontana fine delle indagini.
Quanto è stato sequestrato in via cautelativa?
Il sequestro dei fondi di Non c’è Pace Senza Giustizia, “cautelativo”, ha riguadarato fondi che provenivano dall’Unione europea per le attività di diritti umani dell’organizzazione in Libia, oltre che dalla Svizzera, dalla Norvegia e dall’Open Society Foundation per il lavoro sui diritti umani in Afghanistan: entrambi paesi dove è difficile lavorare ma in cui abbiamo costruito rapporti con colleghi e parnter locali ormai per decenni. Ora, né possiamo restituire quei soldi, né possiamo usarli per le nostre attività sul campo a tutelano i diritti umani. Per questo il 2023 senza una perdita troppo grave. Il nostro lavoro in Libia, in Afghanistan, in Amazzonia per tutelare i diritti umani non si è mai fermato, ma c’è anche un bilancio da chiudere.