Vuole essere lei?
Ha tolto il filo d’erba dalla bocca, le brillano le labbra, si avvicina, è un personaggio del romanzo, una persona in maschera. Con uno scatto ha distaccato la spalla dal palo al quale era puntellata. Ha fatto una piroetta? Sì, l’ha fatta. Ma bisogna veramente dire tutto? Tutto quello che accade al di qua di queste veneziane che sono le righe? C’è chi da fuori butta, se non gli occhi, occhiate in questo interno. Non è vero il contrario: che dall’interno, scostando due listarelle con due dita, chi scrive butta gli occhi sul mondo, no, non è vero. Oppure sì, ma allora chi scrive non scrive veramente. Chi veramente scrive lo fa proprio per distogliere gli occhi dal mondo, per dedicarsi, ma ci rendiamo conto, a una pagina bianca, una schiena da fustigare con strisciate di parole (questo lo scrivo per fare impressione, anzi no: con certe frasi faccio esercizi di riscaldamento). Poi, certo, sì, dove vai senza portarti appresso il mondo almeno come manuale? Ma sì, il mondo, come no, questo insieme di un po’ tutto, questo campionario senza il quale non puoi equipaggiarti né arredare né guarnire né farti un’idea (il che già comincia a suonare strano: che il mondo serva a farsi un idea, magari anche del mondo), ma davvero vogliamo fare a meno del mondo? È questa la domanda assillante.
In attesa di una risposta tentatrice viviamo ossia passiamo il tempo in fila. E se il mondo fosse un quesito? Questa è l’altra domanda. E se avessimo sopravvalutato l’essere? Qui mi viene sempre in mente una lucertola smeraldina, lunga quanto un normale dito medio (non c’è bisogno di fare quel gesto). So io perché mi viene in mente ma non voglio divagare, voglio andare al punto.
In rapporto all’essere come si mette la lucertola smeraldina? Voglio dire: crolla un po’ tutto nel momento in cui ci rendiamo conto che la lucertola non lo sa di chiamarsi Smeraldina (è un nome di comodo, come tutti i nomi del resto, molto di comodo, che fa comodo a me) ma nemmeno di essere un rettile e di appartenere alla famiglia dei Lacertidi e tutto il resto appresso, nemmeno questo sa (e perché non lo sa?). Dice: ma il nome glielo hai dato tu (io, appunto), essa non sa nemmeno d’essere lucertola, nemmeno d’essere verde di quel verde lì. Chissà mai cosa sa d’essere. (Al solo pensiero di cosa sappia mi percorre un timore elettrico, quasi un terrore serpentino e rapido).
Il nome di specie glielo abbiamo dato noi, non è che esistano in natura i nomi delle cose, di tutte le cose (ma ti rendi conto?), e ecco appunto che qui pare ti si congeli la colonna vertebrale, avverti il brivido, e sì: anche a noi abbiamo dato nomi che non esistono né in natura né nella, se vogliamo proprio scomodare questo termine astratto, realtà. La simulata realtà dei nomi, di qualche nome, è questa la realtà che conosciamo, nient’altro. (A questo punto facevo sempre una pausa, stringevo con una presa potente il leggio, lo facevo tremare, vibrare forse, sembrava che lo trattenessi dal volarsene, guardavo il bordo superiore di queste pagine appena lette, non più le righe scritte ma solo il bordo delle pagine, il mio orizzonte, lo rifilavo con sguardo tagliente, e sotto l’ostentata affilatura di questo sguardo sentivo arrendersi nelle mie mani l’atterrito compenso per la serata).
«Ma che ti scrivi, seppiolina?», dice avvicinandosi.
Ti presenti già adesso, io penso. Siamo all’inizio, ma io ho bisogno di te alla fine. Però capisco, sì capisco, è da subito che ho bisogno di te (come se all’inizio fossimo già alla fine).
Ha i capelli di un nero esagerato, lisci come uno specchio (quando arrivano le similitudini riflettenti, il testo le recita in posa d’attore), tirati all’indietro come quei corsetti ottocenteschi, con le funi, i lacci, il cordame (l’umanità da sempre ripropone variati e rinnovati i suoi gesti nelle tante attività e nei tanti utilizzi della propria forza lavoro). Sono anche legati sulla nuca? Con un striscia di morbido cuoio annerito? Ha una coda, un codino? I capelli così tesi brillano. È una mia similitudine? Una similitudine di me, voglio dire. È mia sorella?
Pur avendone spesso bisogno, non ho una sorella. Ovvero avrei potuto averla ma non fino a questo punto. Anche oltre però, adesso che ci penso meglio (pensare è una cosa, pensarci meglio è un’altra: ribalta il pensiero precedente). Non la voglio perdere in descrizioni che sono sempre fumose, anzi fumiganti (appannano la vista, le descrizioni), subito evanescenti: appaiono sempre come spettri le figure umane descritte, o come aloni, hanno qualche volta un unico momento di netta visibilità, e dura un rigo, quello in cui la scrittura, anch’essa in un suo momento di felicità, slitta facendo scintille, è il loro momento, il momento in cui scrittura e immagine assumono il potere, si impongono con un guizzo in quel catino che è la testa di chi scrive, una codata da pesce che lotta per la sopravvivenza (la scrittura più che altro uccide tutto quello che descrive), è il momento in cui vedi le figure e quasi le sorprendi brillare tra le righe come in fuga, frettolose, che corrono oltre la trama a righe delle pagine, vedi queste figure più o meno agitate, più o meno colorate, queste vivide caricature. O non sono caricature le figure umane scritte? Non c’è sempre qualcosa di alterato in esse? Qualcosa di inumano, anzi, direi.
Insomma mia sorella si avvicina (ma non ero io al mio meglio, in abito da delinquente riuscito?). Indossa sempre meno abiti maschili man mano che si fa avanti. Non che si spogli via facendo. Da sotto gli abiti da uomo, friabili come bozzoli, si libera all’aria un abbigliamento da charleston, direi, e lo dico con tutta l’imprecisione e tutta l’incompetenza di cui sono capace: è un costume leggero, volatile quasi, oscillante secondo il pendolo delle anche.
Quell’attrice in una foto, ecco, le somiglia, non in tutte, forse soltanto in una, ecco, quella posa le somiglia (ecco, le somiglia la posa). Quell’attrice inevitabile. Mia sorella, di solito più spettinata, anche se con giudizio, adesso ha i capelli pettinati all’indietro e fermati stretti. Insomma, a ben guardare, tutta questa somiglianza con l’attrice non c’è, ma era per rompere il ghiaccio del personaggio.
Mia sorella è un’attrice specializzata a muoversi nel sogno, ad agire e a parlare in sogno. Abbiamo girato molte scene insieme. La sua bravura è questa: avvicinare la sua lontananza, farmi sentire come da quella lontananza lei mi sia vicina.
«Di certe figure sognate sappiamo tutto anche prima di sapere chi siano», chi l’ha detto? Non lo so, certe frasi si formano da sole, si raccomandano da sole («le frasi celebri hanno forti conoscenze, godono di molte entrature», chi l’ha detta quest’altra?). Conviene trascriverle, così le posso dimenticare senza scrupoli (volevo dire senza rammarico). Ho detto senza scrupoli? Da persona, cioè, che antepone spregiudicatamente il proprio tornaconto a ogni senso morale (il vocabolario è il nostro tribunale? Emette sentenze?).
Conosciamo il meccanismo, sappiamo come funziona con i ricordi. Hai un ricordo, una immagine anche lontanissima di te, un breve balletto di polvere in un fascio teatrale di luce? Una tremula e leggera sospensione: non abbiamo mai la mano ferma quando riprendiamo i ricordi (riprendere: questo verbo si è poi dato al cinema). Insomma, hai questo ricordo che ogni tanto proietti (che si proietta da sé) nella tua saletta mentale, ecco, ce l’hai, è tuo, in visione privata. Vuoi perderlo, vuoi addirittura credere di averlo inventato? Scrivilo. Fermalo una volta per sempre. Fermare sulla pagina, l’ho sentito dire. Non aveva tutti i torti chi lo disse. Quel che si ferma è perduto, anche questo ho sentito dire? Quali presuntuosi cabaret ho frequentato? Quali circoli intellettuali dediti all’avanspettacolo saccente? Quali mescite di insopportabile ostentazione semioticante?
Scrivilo e non sarà più tuo, il ricordo, anzi sospetterai che tuo non lo sia mai stato. “Scrivile per non dirtele a voce, le cose. Non vorrai davvero parlare a te stesso, fare questa figura borbottante?”, è una legge o fu quello che lei mi disse? A proposito, come si chiama?
Come un principiante scrivo di quello che scrivo (siamo infatti all’inizio). Ma è per non scriverne più. Per dimenticare di averlo fatto. Solo che dimenticando dimentico anche di averlo già scritto. Ecco perché sono, alle volte, un po’ ripetitivo. È la dimenticanza che in me si ripete. E domani scriverò.
E così della tua infanzia e dell’adolescenza fino a quell’accenno di pubertà giusto giusto allarmata dall’apparizione del primo pelo ne hai fatto materia di canzone, il genere dell’immaturità?
Ma come parli? Le dico. Come te, lei mi dice.
Sì, l’ho fatto, ma tra noi è cosa nota.
Ta noi sì ma, renditi conto, ti stanno leggendo. (Ci stanno guardando).
(13 Continua)