Il quadro di René Magritte del 1929 intitolato “Ceci n’est pas une pipe” potrebbe essere usato per sintetizzare visivamente i risultati del Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2023 dove le immagini magniloquenti delle sue conclusioni contrastano con una realtà decisamente negativa richiamando l’espressione dei «sonnambuli» usata su La Repubblica da Massimo Giannini e su Il Sole 24 Ore da Sergio Fabbrini. Come sappiamo, l’unico apparente risultato – definito impropriamente «storico» – è stato l’accordo a ventisei con l’astensione o meglio l’assenza di Viktor Orban per l’avvio dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldova insieme alla concessione dello status di candidato alla Georgia.
In qualche modo storico può essere invece considerato il risultato della COP28 a Dubai, chiusa il giorno prima del Consiglio europeo per l’impegno – non vincolante – di arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050 soprattutto grazie al percorso avviato dall’Unione europea nel 2019 con il Patto Verde Europeo (European Green Deal) proposto dal Parlamento europeo e inserito come priorità dalla Commissione europea nel programma della legislatura.
Il Consiglio europeo ha poi semi-aperto la porta dei negoziati con la Bosnia Erzegovina e la Macedonia del Nord vincolandoli e condizionandoli tuttavia ad ulteriori passi in avanti nelle riforme interne. Non ha citato esplicitamente l’Albania, il Montenegro e la Serbia (dove le elezioni legislative hanno rafforzato la maggioranza assoluta della coalizione populista di Vucic) – inserendo questi paesi in un più generale capitolo dedicato ai Balcani occidentali (che occidentali non sono) – con i quali i negoziati sono già formalmente iniziati ma di fatto congelati da tempo formulando l’ipocrito auspicio di una loro generica accelerazione. Il Consiglio europeo ha ignorato invece sia il Kosovo che, soprattutto, la Turchia che è ancora sulla carta un paese candidato all’adesione suscitando la scontata irritazione di Ankara.
Sia Paolo Gentiloni che Romano Prodi al Forum Europa del Partito Democratico ed Emmanuel Macron nella conferenza stampa a chiusura del Consiglio europeo hanno ricordato che i tempi per l’ingresso dei paesi candidati saranno molto lunghi e lo stesso Consiglio europeo ha sottolineato che i negoziati sono reversible e cioè che le loro conclusioni sono open ended, ma tanto è bastato a Volodymyr Zelensky per affermare che l’Ucraina fa ormai parte della famiglia dell’Unione europea.
Non è emersa nel Consiglio europeo l’idea avanzata dalla Assemblea nazionale francese di aggiornare le procedure di adesione per impegnare all’inizio dei negoziati i paesi candidati ad un accordo politico collettivo sottoscritto da tutti i parlamenti nazionali sul rispetto della Carta dei diritti, della cooperazione leale, del primato del diritto comunitario e della reciproca solidarietà diplomatica e militare, per associarli poi alle politiche comuni coinvolgendo le amministrazioni e la società civile ispirandosi al metodo della Conferenza sul futuro dell’Europa e – solo alla fine di questo percorso – per procedere alla firma dei trattati di adesione sapendo che in molti casi essi dovranno essere ratificati per via referendaria nei paesi candidati e nei paesi membri e che le difficoltà di eventuali ratifiche dovrebbero essere risolte con degli accordi di associazione al di fuori del quadro istituzionale dell’Unione europea.
Il Consiglio europeo ha sposato invece la tesi secondo cui la riforma delle priorità dell’Unione europea, delle sue politiche e della sua capacità di agire deve essere parallela al processo di allargamento e cioè, per usare una nota espressione del linguaggio comunitario, che l’approfondimento e l’allargamento devono procedere mano nella mano sottolineando che anche l’approfondimento come l’allargamento è una prospettiva a lungo termine.
Queste immagini contrastano con la realtà di un’Unione europea incapace di decidere sulle questioni essenziali o, per meglio dire, esistenziali della sua dimensione geopolitica come è stato confermato dall’assenza di decisioni sul Medio Oriente e sulle politiche migratorie insieme allo scontro sulla revisione a metà percorso del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 in cui l’aspetto più grave non sta nel veto di Viktor Orban sugli aiuti all’Ucraina ma nella mancanza di ambizioni finanziarie e dunque politiche per gettare le basi di un bilancio federale nelle spese e nelle entrate indispensabile per garantire l’autonomia strategica europea nella politica industriale, nella difesa ed anche negli investimenti sociali di lunga durata, nel sostegno alla transizione ambientale e nell’intervento europeo per il governo delle politiche migratorie.
Da segnalare che il Consiglio europeo ha deciso di non decidere sulla adesione della Bulgaria e della Romania alla cosiddetta area Schengen relativa alla libera circolazione delle persone a cui ha già aderito la Croazia che è entrata nell’Unione europea dopo la Bulgaria e la Romania. Sulla riforma dell’Unione europea, il Consiglio europeo ha rinviato ogni decisione alla definizione della “agenda strategica 2024-2029” e cioè ad un esercizio puramente intergovernativo che i Capi di Stato e di governo considerano da tempo come una materia di loro esclusiva competenza e che adottano all’inizio di ogni legislatura – come hanno fatto nel 2014 e nel 2019 – ritenendo di poterla imporre alla nuova Commissione europea e al Parlamento europeo eletto.
Seguendo gli orientamenti suggeriti su iniziativa spagnola dal Consiglio affari generali del 12 dicembre in cui si è grottescamente affermato che le raccomandazioni delle Conferenza sul futuro dell’Europa sono state attuate o sono in via di attuazione a trattato costante, il Consiglio europeo ha volutamente ignorato il progetto votato dal Parlamento europeo il 22 novembre– in cui si sostiene che l’approfondimento debba precedere l’allargamento e che il superamento del Trattato di Lisbona del 2009 debba avvenire «fra i paesi che lo vorranno» per usare una espressione di François Mitterrand – essendo noto che almeno sedici governi su ventisette sono ostili all’idea di mettere mano alla revisione dei trattati e che fra tutti i governi prevale invece l’idea di introdurre delle limitate modifiche attraverso una conferenza intergovernativa (e cioè la “procedura semplificata” prevista dall’art. 48.7 TUE) o di introdurle nei trattati di adesione come sarebbe consentito dal Trattato (art. 49 TUE).
Il Parlamento europeo non ha certo contribuito a creare una adeguata aspettativa pubblica e istituzionale sul tema della riforma dell’Unione europea perché il progetto votato il 22 novembre è stato elaborato da cinque relatori senza trasparenza, sottoposto ad un dibattito parlamentare in una sessione carica di temi divisivi come il regolamento sugli imballaggi e i pesticidi, frutto di un complicato e talvolta contraddittorio compromesso fra i gruppi politici in cui ciascuno di essi ha cercato di metterci il suo segno distintivo in un coacervo di duecentosessanta proposte di modifica del trattati con il risultato che le divisioni fra i gruppi e all’interno dei gruppi sono esplose in aula facendo saltare alcuni importanti elementi innovativi e giungendo ad un voto finale politicamente preoccupante con quarantaquattro astensioni, duecentosettantaquattro voti contrari, duecentonovantuno favorevoli, quasi cento assenti e due terzi del PPE schierati con i conservatori ed i sovranisti.
Sarebbe stato molto utile ed istruttivo, anche in vista delle elezioni europee del prossimo mese di giugno, leggere sulla stampa e sui media un’analisi delle ragioni politiche di quel voto e di quelle divisioni con un significato insieme europeo e nazionale fra cui quelle più rilevanti riguardano i partiti che sostengono il governo Meloni in Italia dove i deputati europei di Fratelli d’Italia e della Lega hanno votato contro mentre quelli di Forza Italia (con due eccezioni) hanno votato a favore e tutto il governo ha respinto a Palazzo Madama e a Montecitorio le risoluzioni delle opposizioni in cui si chiedeva l’impegno dell’Italia per il superamento del Trattato di Lisbona e l’avvio di una fase democratica e costituente dopo le elezioni europee.
Il silenzio della stampa e dei media in tutta l’Unione europea sul voto del 22 novembre, aiutato anche dallo scarso rilievo dato dai servizi di informazione del Parlamento europeo, è stato invece assordante e ciò dovrebbe sollecitare l’attenzione dei partiti europei e nazionali che hanno sostenuto quel progetto per creare un ampio consenso nelle opinioni pubbliche indispensabile quando sarà necessario riaprire il cantiere della riforma dell’Unione europea nella prossima legislatura.
Se l’ostilità dei governi nel Consiglio europeo a prendere una decisione favorevole a modificare il Trattato di Lisbona e a convocare una convenzione con il compito di adottare per consenso una raccomandazione da inviare ad una Conferenza intergovernativa emergesse in modo inequivocabile all’inizio della prossima belga del Consiglio, il Parlamento europeo dovrebbe immaginare rapidamente di percorrere una doppia via alternativa fondata sul primato della democrazia rappresentativa e sul ruolo della democrazia partecipativa.
Nel primo caso il Parlamento europeo potrebbe seguire l’esempio delle “assise interparlamentari” che riunirono a Roma nel novembre 1990 – su iniziativa dello stesso Parlamento europeo, della Camera dei Rappresentanti belga, della Camera e del Senato – parlamentari delle dodici assemblee legislative senza i governi e la Commissione con un risultato politico significativo alla vigilia dell’avvio delle conferenze intergovernative che condussero al Trattato di Maastricht.
In questo caso, le famiglie politiche che hanno condiviso il progetto di revisione dei trattati dovrebbero proporre alla Camera dei Rappresentanti belga di promuovere congiuntamente al Parlamento europeo la convocazione a Bruxelles nel mese di marzo di una sessione straordinaria delle assise parlamentari in cui i partecipanti siano suddivisi per gruppi e non per delegazioni nazionali e adottino a maggioranza assoluta le linee direttrici di un processo di riforma per il superamento del Trattato di Lisbona che metta al suo centro la democrazia rappresentativa a partire dal progetto votato dal Parlamento europeo il 22 novembre e che sia fondata su una convenzione parlamentare costituente.
Nel secondo caso, il Parlamento europeo dovrebbe promuovere la convocazione a Strasburgo di una sessione della Conferenza sul futuro dell’Europa a cui invitare le cittadine e i cittadini, le reti della società civile, i partner sociali, il Comitato Economico e Sociale e il Comitato delle Regioni per un confronto pubblico fra le raccomandazioni adottate dalla Conferenza e il progetto votato dal Parlamento europeo il 22 novembre.