La pietra dello scandalo è nell’ultima campagna del brand, la Collection 04_The Jacket di Zara Atelier, scattata dal fotografo Tim Walker, con protagonista la modella Kirsten McMenamy. Un servizio fotografico che si incentrava sulla giacca, e su sei nuove iterazioni sul grande classico, con variegate tecniche di realizzazione, dettagli e materiali dedicati. «Un edit ristretto», come viene definito dal brand, prendendo a prestito la nuova parola più amata dal lessico della moda da quando l’ha usato Phoebe Philo un mese fa, parlando della sua nuova collezione eponima, che sarà distribuita a cadenze regolari, con una selezione di capi, appunto, un “edit”, termine che ha immediatamente sostituito il desueto “drop”, figlio dello streetwear in caduta libera di rilevanza.
Agli utenti dei social però, quelle foto e i relativi oggetti di scena – definiti in gergo tecnico i “props” – con lo styling di Ludivine Poiblanc sono apparse da subito irrispettose. McMenamy è fotografata in un ambiente asettico: in uno studio, con dei manichini. In una specifica foto dietro di lei c’è una grande cassa in legno, di quelle utilizzate per trasportare e spedire statue e opere museali. In effetti lo spirito della campagna – come specificato dal brand –, era quello di ricreare l’atmosfera di uno studio da scultore, di un atelier dove tutto è ammantato da una patina polverosa di gesso e i manichini sono avvolti dalla plastica trasparente, per proteggerne il contenuto. Ma proprio quei manichini in legno – alcuni dei quali mancavano degli arti, avvolti in quel velo bianco –, agli utenti hanno ricordato le immagini drammatiche che ormai dagli inizi di ottobre hanno preso possesso dei nostri schermi e che raccontano l’attacco a Gaza e ai suoi abitanti, da parte di Israele. Teli bianchi come bianchi sono i sudari nei quali i sopravvissuti avvolgono le vittime di una guerra che non risparmia i civili, nel tentativo di concedere a quei corpi senza vita, l’ultima gentilezza della dignità e del riserbo.
#BoycottZara è così diventato hashtag in trend topic su X, mentre su Instagram gli utenti hanno chiesto aiuto e lumi per alzare ulteriormente i toni alla fashion police di Diet Prada, account la cui missione principale è quella di cavalcare casi del genere, a metà tra un reale desiderio di “citizen journalism” e il tentativo di trarne profitto in engagement e follower. Nel mentre, il negozio di Montreal di Zara è stato vittima di atti vandalici e il profilo della stylist Poiblanc sommerso da commenti che andavano dall’infuriata critica alla minaccia di morte, con utenti che si domandavano dove si trovasse, invece, il profilo di Tim Walker. Il fotografo inglese cinquantatreenne, autore di campagne immaginifiche ambientate in un mondo incantato e di servizi di moda per Vogue entrati nella storia del costume, non ha un profilo personale su Ig, ma solo un TimWalker fans che conta centoventisettemila follower, con la sezione commenti delle ultime foto invasa di bandiere palestinesi.
«Una scena morbosa» l’hanno definita alcuni utenti, affiancando le immagini della campagna a quelle drammatiche della realtà, nella quale madri e padri, sorelle e fratelli palestinesi, stringono al petto corpi senza vita, avvolti in teli bianchi. «Tutto ciò deve far parte di una campagna di marketing estremamente sfortunata, oppure si tratta di una conclamata derisione del genocidio» ha twittato un altro utente di X. Tra prese di posizione che tenevano in conto la possibilità di una mancanza di sensibilità, più che una posizione politica, e chi invece faceva notare come sulla lavagna sullo sfondo ci fosse un triangolo capovolto i cui volumi ricordavano quelli della Palestina antica sulle mappe geografiche, il dibattito acceso ha riportato alla luce un accaduto del 2021.
All’epoca, il modello palestinese Qaher Harhash, proveniente da Gerusalemme est aveva infatti condiviso sui social alcuni contenuti pro-Palestina, che avevano portato la head designer di Zara, Vanessa Perilman a inviargli dal suo profilo privato messaggi di accuse.
«Forse se la tua gente fosse istruita allora non farebbe saltare in aria gli ospedali e le scuole che Israele ha aiutato a pagare a Gaza»; «Gli israeliani non insegnano ai bambini a odiare né a lanciare pietre ai soldati come fa la tua gente». «Inoltre, penso che sia divertente che tu sia un modello, perché in realtà questo è contro ciò in cui crede la fede musulmana e se tu dovessi uscire allo scoperto in qualsiasi Paese musulmano saresti lapidato a morte».
Affermazioni intrise di una profonda islamofobia di cui il modello aveva fatto lo screenshot per poi ricondividerle e che in seguito erano state riportate dall’associazione dei giovani palestinesi italiani. Il gruppo, tramite Instagram, aveva chiesto all’epoca il boicottaggio dell’azienda come segnale di contestazione. Dopo le proteste che l’avevano travolta online, Perilman si scusò pubblicamente. A oggi non si è a conoscenza di quali eventuali provvedimenti siano stati presi internamente nel 2021 verso la designer, che non ha al momento un account ufficiale su Instagram ma che lavora ancora nell’azienda. (Abbiamo inviato a Zara una richiesta ufficiale di chiarimenti in merito, ma al momento non abbiamo ricevuto risposta: si provvederà ad aggiornare il pezzo nel caso arrivi una dichiarazione da parte del brand, ndr).
Per l’occasione, però, come riportato dalla CNN, il brand rilasciò un comunicato nel quale condannava l’accaduto. «Zara non tollera le mancanze di rispetto verso qualunque cultura, religione, Paese, razza o credo. Zara è un’azienda che supporta la diversity e non tollereremo mai qualsivoglia tipo di discriminazione. Condanniamo questi commenti che non riflettono i nostri valori e ci rammarichiamo del dolore che hanno causato. In quanto azienda multiculturale, ci impegniamo nel garantire un ambiente di lavoro paritario e inclusivo come parte dei nostri valori aziendali». Per quanto quell’accaduto sia totalmente slegato dalla campagna, secondo alcuni utenti questo avvenimento del 2021 dava spessore alla teoria di un odio arabofobico da parte del brand di proprietà del gruppo Inditex. Di conseguenza è nata ieri su change.org una petizione per richiedere al colosso spagnolo il licenziamento della stilista.
Di fronte alle accuse sempre più accese, Zara ha così deciso di ritirare la campagna, condividendo su Instagram proprio ieri una dichiarazione ufficiale. «Dopo aver ascoltato i commenti riguardanti l’ultima campagna di Zara Atelier, The Jacket, vorremmo condividere con i nostri follower e i nostri clienti quanto segue. La campagna, concepita a luglio e scattata a settembre, presenta una serie di immagini di sculture non terminate nello studio di uno scultore ed è stata creata con lo scopo unico di mostrare pezzi artigianali in un contesto artistico. Sfortunatamente, alcuni clienti si sono sentiti offesi da tali immagini, che sono state rimosse, e hanno visto in esse qualcosa di lontano dalle nostre intenzioni, quando sono state prodotte. Zara si rammarica del malinteso, riaffermando per l’occasione il nostro profondo rispetto nei confronti di tutti».
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Una campagna pensata a luglio e scattata a settembre, non può quindi avere nulla a che fare con un conflitto sanguinoso che esiste da decenni, ma che si è fatto estremamente più violento dal 7 ottobre scorso. Se si può accusare il colosso spagnolo di un errore, si tratta di certo di una mancanza di una catena di controllo che, alla luce degli avvenimenti recenti, ripensasse o cancellasse la condivisione di immagini che – pur nate con tutt’altro scopo – potevano essere fraintese. Sembra d’altronde assai bizzarro il pensiero che un brand, nella totale lucidità di intenti, pur di sostenere una posizione politica, decida consapevolmente di condividere del materiale pubblicitario che la farà finire in un tritacarne mediatico con la capacità di ripercussioni anche sulle sue azioni in borsa – Inditex è quotata alla Borsa di Madrid dal 2001 – come sulle vendite (il gruppo ha diramato proprio oggi una nota che segna un utile netto a +32,5 per cento nei primi nove mesi dell’anno fiscale).
Quel vecchio adagio «nel bene o nel male, purché se ne parli» desueta regola del marketing pubblicitario, nasce molto prima dei social e del loro profondo impatto sull’operatività e la reputazione dei brand, ed è stata già ampiamente sconfessata l’anno scorso, con l’affaire Balenciaga, che ha portato il brand a un profondo ripensamento delle sue strategie di comunicazione e ha altrettanto ridimensionato il suo direttore creativo Demna. Le sue sfilate, sempre a metà tra lo stratagemma pubblicitario per titillare le critiche del pubblico e una reale riflessione sullo stato dei tempi (come nel caso della celebrata collezione autunno-inverno 2023, con i modelli che camminavano in una tempesta di neve, omaggio al coraggio del popolo ucraino invaso dalla Russia) hanno oggi dei toni più concilianti, che pur se venati da un sotterraneo sarcasmo, mirano all’approvazione urbi et orbi.
D’altronde, come non essere d’accordo con il georgiano quando, per la sua ultima collezione per Balenciaga (autunno-inverno 2024/2025) fa sfilare i suoi modelli a Windsor street, Los Angeles, con sullo sfondo l’iconico simbolo di Hollywood, e irride tutto quello star system distaccato dalla realtà, tra tutine in velluto e borracce in metallo piene probabilmente di energy drink, figlie dell’ossessione verso la forma fisica? Prendere in giro le manie di ricchi e potenti è uno sport innocuo del quale siamo stati tutti – almeno una volta nella vita – attivi partecipanti. Minimizzare o addirittura strumentalizzare un conflitto che sta producendo una crisi umanitaria senza paragoni, sembrerebbe in questo senso un’azione assai meno intelligente dal punto di vista del marketing, oltre che umanamente ed eticamente deplorevole. E si dubita che qualunque azienda, di fronte a dei possibili scenari così critici, possa comunque optare per un harakiri social(e), dal quale – come ha dimostrato Balenciaga – si esce depotenziati nella propria autorevolezza e con un lungo percorso di redenzione mediatica da intraprendere. E che probabilmente – al netto di gravità e teorie di tutt’altro peso – toccherà camminare anche a Zara.