Dedicato alle donneL’identità di Alessia Pellarini racchiusa nel suo nuovo archivio milanese

The AP Archive, in zona Porta Romana, conserva più di tremila pezzi accumulati nel corso di una carriera ventennale: «Venderli mi sembrava una violenza, quindi ho capito che era arrivato il momento di dar loro una seconda vita», ci racconta la stylist brianzola, che non esclude un suo ritorno negli uffici stile

Courtesy of Studio2046

Agli addetti ai lavori della moda, il suo nome – con corredata chioma bionda, maxi occhiali e armadio eclettico, spesso fotografato tra Londra e Parigi – non è nuovo. Gli altri, invece, impareranno a conoscerla meglio da questa settimana: Alessia Pellarini ha appena aperto a Milano in zona Porta Romana (ma anche sul web) il suo The AP Archive, un guardaroba costruito in più di vent’anni di carriera e oggi disponibile per il noleggio.

Un’istituzione tra gli addetti ai lavori, Pellarini si è fatta le ossa dopo essersi diplomata alla Saint Martins, per poi approdare da Prada nel 2000 come junior designer. Dopo un decennio, ha lasciato quell’ufficio stile con la qualifica di Design Director, per poi approdare due anni dopo da Fendi dove ha lavorato con lo stesso ruolo. 

Nel mezzo, un passaggio anche nel mondo iper-femminile di Chloé e una parentesi da Tommy Hilfiger. Un percorso ancora più encomiabile se si pensa alle immense difficoltà che incontrano le donne del settore, testimoniate dai numeri. Da una parte la quantità evidente di direttori creativi uomini e bianchi, dall’altra l’imbarazzante esiguità delle loro controparti femminili. Una problematica che nella moda esiste da sempre, ma che sembra aver guadagnato nuova trazione sui social grazie a un post del giornale 1Granary. Il contenuto mostrava gli identikit dei direttori creativi di Kering, tutti uomini e bianchi.

 

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«A questo argomento dovremmo dedicare un altro capitolo: in passato diverse maison mi hanno chiamata per ricoprire il ruolo di direttore creativo, sono finita nella shortlist finale, ma poi hanno preferito sempre un uomo bianco, non c’è nulla che mi stupisca, è una situazione che va avanti da molto tempo», commenta lei quando la raggiungiamo in videochiamata nel suo spazio, che rappresenta anche un nuovo capitolo della sua vita. 

Abbandonati momentaneamente gli uffici stile, Pellarini ha deciso di dedicarsi a questa nuova avventura, esponendo in un luogo simile a uno scrigno, e progettato da Studio 2046, i circa tremila pezzi acquistati nel corso di vent’anni di carriera. Tra i brand presenti – si possono “noleggiare” dai quattro agli otto giorni, con un listino prezzi che parte da quindici euro al giorno e che comprende il prezzo di tintoria e assicurazione – ci sono Balenciaga, Margiela, Marc Jacobs, Sacai, Richard Quinn e, ovviamente, Chloé, Fendi e Prada. 

Sul sito dedicato è inoltre prevista la sezione “The AP editorial”, dove attraverso servizi fotografici ed editoriali la designer propone spunti per reinterpretare in chiave contemporanea i capi d’archivio. L’obiettivo? «Dare un futuro, al mio passato, aprendo il mio guardaroba alle donne», ci racconta Pellarini. E tra le proposte – trecento cappotti, più di seicento vestiti, oltre duecento giacche – c’è in effetti varietà, sia di stili – si va dagli abiti di gala al ready to wear più informale – sia di taglie: «Ho cambiato taglia diverse volte nella vita», ammette lei con sincerità, e viene da dirle che è quello che succede anche alle donne che vivono nel mondo reale, e non a quelle che popolano le passerelle e gli stereotipi dei direttori creativi.

Prima di entrare nel mondo della moda, di intraprendere questa carriera di successo, chi era e cosa sognava Alessia Pellarini?
Ero una ragazza della Brianza, di Cantù, il paese dei mobili e della pallacanestro. Eppure quella realtà provinciale mi stava stretta: negli anni Ottanta vivevo nel mito della British Invasion, la musica inglese, il glamour e i Duran Duran. Fenomeni musicali che erano strettamente correlati alla moda, se ci pensi. Il primo Versace, Jean-Paul Gaultier, gli inizi di Dolce & Gabbana, mi affascinavano molto. La capacità di raccontare il bello in una maniera così personale – per me non esiste un concetto come il bello assoluto – faceva parte di me, ma anche di mia madre, che pur non essendo collegata al mondo della moda aveva questa capacità di vestirsi sempre con attenzione. A diciotto anni ho fatto i bagagli e sono andata a Londra, dove sono rimasta dieci anni. Ho iniziato facendo lavori di vario genere e poi sono arrivati il London College of Fashion e la Saint Martins, dove ero in classe con Riccardo Tisci. Una combinazione divertente, se pensi che veniamo dallo stesso paese e siamo nati lo stesso giorno, in anni diversi (ride, ndr). Londra ha formato tantissimo la mia estetica, indubbiamente.

Ph. Darrel Hunter | Art director: Alessia Pellarini | Styling by Alessia Pellarini and Tiziana Capraro

A guardare i pezzi che sono disponibili nel suo archivio, però, non solo Londra l’ha influenzata esteticamente.
No, sono figlia di molte altre esperienze. Il “brutto/bello” di Prada dei primi Duemila, un tocco del mondo incantato e femminile di Chloé, la sperimentazione con Karl Lagerfeld da Fendi, ma poi anche gli ultimi anni dopo la morte di Karl e prima dell’arrivo di Kim Jones, con Silvia Venturini Fendi, una donna alla quale esteticamente mi sentivo molto vicina e con cui ho lavorato benissimo. In quell’ufficio stile ho voluto moltissime donne con me, perché volevo avere qualcuno con cui confrontarmi anche su come quei capi avrebbero fatto sentire le acquirenti che poi li avrebbero indossati. Sono una costante contraddizione, in fondo, questo archivio mixa gli abbinamenti colori un po’ azzardati di Prada a degli angoli total black, che la gente conoscendomi non pensa io indossi. Forse è un po’ schizofrenico, ma questa selezione racconta le varie donne che esistono dentro di me, e le varie fasi che ho attraversato.

Ma quando ha iniziato a comprare questi capi, più di vent’anni fa, non l’ha fatto avendo già in mente questo progetto, immagino…
No, li ho comprati perché mi piacevano, e perché è una sorta di “addiction”. Vedo qualcosa di bello e mi si oscura la mente (ride, ndr). Molti pezzi li ho indossati tantissimo, altri vengono dal mio percorso di designer.

Ma come è nato allora il desiderio di creare un archivio?
È successo quest’anno, quando ho lasciato Fendi, con il trasferimento da Roma a Milano, e ho dovuto decidere cosa fare di tutti questi abiti. Mi sono chiesta se li avrei mai venduti, o se avrei potuto invece conservarli in un magazzino. Venderli mi sembrava una violenza, dopo tutto questo tempo nel quale ho vissuto tra i vestiti, che conservavo tra la mia casa di Roma, quella di Milano, e poi in ufficio. E quindi ho capito che era arrivato il momento di dar loro una seconda vita, fornendo la possibilità ad altre persone di trarne gioia così come è successo a me. Si tratta di certo di una gioia effimera, me ne rendo conto, ma che può far bene allo spirito, anche se solo per poco. 

Ph. Jordon Wi-fi | Art direction: Alessia Pellarini | Art direction assistant: Francesco Facchini | Modella: Zoe Van der Zee

Il primo pezzo che ha comprato, pensando poi di dedicarlo ad un futuro archivio, quale è stato?
Forse sarebbe meglio dire “quello che non ho comprato”. Perché se devo trovare un pezzo che ho pensato fosse necessario avere, parliamo della collezione Prada primavera/estate 2000, quella con i rossetti e le labbra disegnate. All’epoca ero appena arrivata in azienda, e non mi potevo permettere un acquisto del genere, ma mi sono ripromessa che appena avessi potuto, avrei cercato di comprarne dei pezzi. Ci sono riuscita anni più tardi, ho acquistato un paio di gonne tramite il resell: è stato il mio primo approccio all’idea dell’archivio.

E quello che non è riuscita a comprare e di cui si pente ancora molto?
È una lista lunga, ma mi sono detta che, con calma, li comprerò tutti. Ci sono pezzi di Margiela e Gaultier, ma anche i vestiti con le catene di Prada del 2001, quelli del 2004. Insomma, siamo in fase di continua evoluzione e arricchimento.

Quello al quale ha legato un ricordo molto bello?
Sono come dei figli, difficile fare distinzioni. Però c’è il mio vestito da sposa, perché, sì nel frattempo mi sono sposata e anche separata. Il vestito me lo regalò Prada, è del 2004, era il vestito che indossava Daria Werbowy nella pubblicità del profumo, in organza giallo spruzzato, con una ombreggiatura marrone sul basso. Conservo sempre dei bellissimi ricordi di quell’evento, quindi l’ho messo in archivio.

E cosa ci dice del posto fisico che ha scelto per ospitare la sua collezione personale?
Era una scatola bianca, che abbiamo trasformato con Studio 2046 di Daniele Daminelli in una sorta di cabinet de curiosité, uno scrigno, anche con dei tendaggi (in raso di seta di Christian Fischbacher, ndr) che sembrano rimandare al mondo del teatro. Desidero che quando le persone entrino al suo interno si sentano trasportate in un mondo ovattato, ma accogliente. 

Oltre però a noleggiare gli abiti, ci sono anche altre opzioni?
Sì, in realtà vorrei che diventasse una sorta di hub creativo. Mi piacerebbe utilizzarlo per le mostre, come set o anche come spazio di lavoro. Ho molti amici che lavorano in diversi ruoli nelle maggiori maison, e mi piacerebbe creare una sorta di rete, che passi (anche) attraverso questo spazio.

Ph. Delwin Kamara | Art direction: Alessia Pellarini | Modella: Sasha Payton

Che rapporto ha con i giovani designer? Ho visto online che ha fatto parte della giuria di Accademia Costume & Moda per decretare i nomi dei talenti ancora tra i banchi di scuola.
Sono di un’altra generazione, e credo che per i giovani sia complessivamente tutto più difficile. Certo, ci sono i social con i quali le notizie e le immagini sono tutte a portata di mano, ma mi sembra difficile andare in profondità perché i ritmi di oggi sono estremamente veloci. E poi, diciamolo, i ragazzi di oggi si confrontano con un mondo della moda che non è più certo quello di quando ho cominciato io. Solo a pensare di ricominciare oggi mi sento addosso una gran fatica (ride, ndr). Da loro cerco sempre di imparare, e mi sembra di riconoscere quella luce nello sguardo, quella fame nel voler fare questo lavoro, che non è una prerogativa generazionale, ma appartiene fortunatamente a tutti quelli che amano la moda. Ma lo sai chi era un altro che amava circondarsi di persone giovani?

No, chi?
Karl Lagerfeld. Con lui si è costruito negli anni un rapporto di stima professionale, e la cosa che ho sempre ammirato e che mi ha trasmesso è stata la sua curiosità. Nonostante avesse una cultura immensa, voleva sapere costantemente cosa c’era di nuovo in giro, cosa andava di moda tra le generazioni più giovani, era affamato di sapere in ogni sua forma. E per questo, in fondo, giovane ci è sempre rimasto anche lui. E questo, lavorando con lui, mi ha sempre spinto a trovare delle soluzioni nuove per stupirlo, facendomi anche crescere come designer. 

Karl Lagerfeld a parte, ha lavorato per maison in cui la presenza femminile è fondamentale: da una parte il matriarcato di Fendi, dall’altra Miuccia Prada. Sarà stato un caso?
Non credo. La realtà è che mi sono sentita a mio agio nel confrontarmi con mondi femminili seppur con approcci diversi. La signora Miuccia è eccezionale, unica nella sua capacità di mostrarti lo stesso argomento da tantissimi punti di vista diversi, una fonte continua di ispirazione dalla quale ho imparato moltissimo. 

Oggi però le cose nel sistema della moda sono assai diverse…
Purtroppo sì, che è stato uno dei motivi per i quali ho deciso di allontanarmi temporaneamente dall’ufficio stile. Certo, da una parte volevo un progetto che fosse solo mio. Dall’altra le tempistiche aziendali post-covid sono diventate molto pesanti. Quando però nasci designer, secondo me, a un certo punto devi tornare in quel mondo, perché ti manca. E credo che ci tornerò, ma non ho voglia di fare previsioni adesso.

E tra i designer di oggi, invece, tra i più giovani, c’è qualcuno che apprezzi?
Mi viene subito in mente Veronica Leoni di Quira, che è bravissima. Ha un’estetica super sofisticata, per me dovrebbe avere subito la direzione creativa di qualche maison, ma lo sappiamo, no? Per affermarsi come un uomo, a noi tocca fare il doppio della fatica. 

Molti dei professionisti che fanno il suo mestiere hanno un archivio di capi che usano per consultazione o per motivi personali: è molto più raro che lo mettano a disposizione degli altri. Non le fa un po’ strano noleggiare dei vestiti ai quali sono legati sicuramente dei suoi ricordi?
No, forse era venuto il momento di lasciarsi indietro il senso di possesso e condividere questo tesoro con le altre donne. E poi chi ha detto che smetterò di indossarli? 

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