Per una delle strane ed eloquenti coincidenze, che le ricorrenze disseminano nei calendari della storia politica, nello stesso giorno in cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, aprendo le celebrazioni del Giorno della Memoria, ha denunciato nel «culto del capo» il virus che ha «contagiato gran parte d’Europa, scatenando istinti barbari e precipitando il mondo intero dentro una guerra funesta e rovinosa», quel che resta di Forza Italia ha mestamente festeggiato il trentennale della discesa in campo di Silvio Berlusconi, con la stessa enfasi luttuosamente nostalgica con cui, pochi giorni prima, i più sparuti reduci comunisti avevano celebrato il centenario della morte di Lenin.
Malgrado gli spregiatori del berlusconismo si siano spesso avventurati a equiparare la sua leadership a quella dei grandi capi del totalitarismo novecentesco, e a riconoscergli i gradi dell’epigono del ducismo mussoliniano, Berlusconi non è stato niente di tutto questo, perché è sceso in campo senza progetti di regime, né ambizioni di potenza, ma con una strategia sostanzialmente trasformistica di sopravvivenza al default della Prima Repubblica.
Chi è abbastanza vecchio da ricordare i suoi Tg ai tempi di Mani Pulite, il suo corteggiare Antonio Di Pietro e la sua prosopopea un po’ tecnocratica e un po’ nazional-popolare da tycoon della Provvidenza può oggi, con il senno di poi, agevolmente concludere che il Cavaliere è stato il catalizzatore di quel caotico divertissement ed esorcismo antipolitico che, alla fine dei suoi anni d’oro (di oltre un decennio precedenti la morte), ha trovato definitivo perfezionamento nelle distopie populiste e sovraniste, di cui pure era stato anticipatore, ma con una misura inadeguata alla dismisura davvero necessaria, garantita invece dai Beppe Grillo, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, arrampicatisi fino a dove la sua Forza Italia era troppo retrò, azzimata e mainstream per arrivare.
Il culto del capo e la devozione al suo carisma sono stati una religione popolare molto diffusa e discretamente fanatica, e il sigillo necessario del libidinoso leccalulismo e olgettinismo politico, che ha circondato Berlusconi dall’inizio alla fine, ma sono stati anche un fenomeno tutto sommato normale in quel processo di personalizzazione e presidenzializzazione della politica, che in tutto il mondo libero è stato imposto, di fatto, dall’inversione dei rapporti di forza tra potere politico e mediatico e dall’inevitabile involuzione personaggistica di ogni tipo di leaderismo istituzionale: di partito, parlamentare, di governo.
Poi si è passati oltre ed è stato un salto non solo quantitativo, ma qualitativo: le piazze Venezia televisive e digitali dell’antipolitica – pure quelle retequattriste e le altre della famiglia del Cav. – si sono votate a un nuovo tipo di capo, più compiutamente post-democratico, appunto, di cui i due attuali campioni del fascismo globale – Vladimir Putin e Donald Trump – rappresentano sia l’archetipo sia il prototipo. Campioni che, non a caso, sono diventati i beniamini dell’elettorato fu berlusconiano e dei nuovi gerenti della destra italiana.
Berlusconi insomma non è stato il nuovo Mussolini, ma la sua leadership ha guidato la democrazia italiana in quel trapasso antipolitico che l’ha davvero ricongiunta alle sue radici eternamente proto-fasciste. E l’ha guidata arrendendosi peraltro prestissimo a questo destino ingrato di triste nocchiero, e non facendosi troppi problemi a consegnare il liberal-conservatorismo immaginario delle origini – la rivoluzione liberale e tutte le altre bellezze scopiazzate qui e lì dai suoi ghostwriter di tanto o poco talento– nelle mani di una destra vandeana, anti-illuministica e anti-borghese, per cui ha finito per rappresentare qualcosa di simile allo zio ricco e scemo, sempre più inservibile e imbarazzante nelle sue impuntature e pretese.