Nuova rottaLe ripercussioni della crisi del Canale di Suez sulle imprese lombarde

Il blocco della rotta commerciale ha causato un rallentamento significativo degli scambi, aumentando i costi operativi per le aziende, dovuti non solo ai ritardi, ma anche al carburante e ai premi assicurativi dovuti ai percorsi alternativi più lunghi e rischiosi

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Le guerre e le tensioni nel mondo, purtroppo, non si contano più, ognuna con il suo carico di morte, devastazione, miseria e disperazione. Ciò che sta avvenendo in questi giorni nel Mar Rosso, nel canale di Suez, può essere definito l’ennesimo fronte della «terza guerra mondiale a pezzi», come Papa Francesco ha definito il nuovo scenario con cui stiamo facendo i conti da tempo. Alle bombe, quindi, si aggiungono offensive e controffensive economiche che sono, sempre, il contorno di ogni conflitto. In questa analisi cercherò di affrontare tre grosse questioni: Il possibile rallentamento degli scambi commerciali dovuto al blocco del canale di Suez; il peso della geopolitica sulle catene globali delle produzioni e il collegamento sempre più stretto tra politiche economiche e politiche estere europee; l’importanza degli investimenti in tecnologie digitali e innovazione.

L’importanza strategica di Suez
Secondo un report di The Economist Intelligence Unit, il canale di Suez rappresenta il dodici per cento del commercio globale e il trenta per cento del traffico di container. Da lì passa una quantità tra il sette e il dieci per cento del petrolio scambiato globalmente e l’otto per cento del commercio di gas naturale liquefatto. Per l’Italia, e per l’Europa, il blocco di Suez equivale, quasi, a chiudere contemporaneamente il rubinetto e lo scarico a un lavandino: nulla entra e nulla esce, annegando nella siccità economica e industriale tutto il Mediterraneo, tagliato fuori da una delle rotte di vitale importanza per il commercio internazionale di merci, materie prime e semilavorati. Il Mediterraneo, uno degli snodi importanti della globalizzazione e degli scambi mondiali, nonché porta d’accesso ai mercati europei, rischia di trasformarsi in un catino incapace di comunicare con il resto del mondo. Una sorta di stagno dove l’economia stagna.

Uno studio Srm-Alexbank stima in 82,8 miliardi di euro l’interscambio marittimo che transita da Suez. Ricalcolare il percorso, come direbbe google maps, è pressoché impossibile se non al prezzo di un aumento dei costi, carburante aggiuntivo, maggiori premi assicurativi e dilatazione dei tempi di consegna e approvvigionamento, con tanti saluti a competitività ed efficienza per le imprese. A titolo d’esempio, aggirare il blocco di Suez circumnavigando l’Africa, e passando per Capo di Buona Speranza, richiederebbe due settimane di viaggio aggiuntive per sbarcare nei porti del Mediterraneo e ulteriori dieci giorni per raggiungere il nord Europa. 

Per esportare in Asia e Medio Oriente l’Italia deve passare da Suez, così come per importare, da quelle stesse aree del mondo, materie prime, semilavorati, componentistica e altri prodotti. Stiamo parlando di svariati settori merceologici e industriali: dalla moda agli alimentari, dalle auto all’ict, dalla chimica ai macchinari. Da quella rotta, dopo l’embargo alla Russia, transitano anche molti combustibili. Trovare altri fornitori, oltre a nuove rotte, aumenterebbe costi, con spinte inflazionistiche importanti.

I rischi per le imprese lombarde
Vale la pena, a questo punto, ragionare sulla Lombardia, uno dei motori d’Europa. L’economia lombarda sta mostrando una flessione come riporta lo studio di metà ottobre di Confcommercio e Bankitalia che fotografa un Prodotto interno lordo in vistoso calo che scende dal 7,7 per cento del 2021 all’1,3 per cento del primo semestre 2023, con la previsione di chiudere l’anno appena sotto l’uno per cento, in linea con la media nazionale. Anche la produzione industriale è in rallentamento, scesa dal 6,3 per cento del 2022 all’1,5 per cento del primo semestre 2023. Insomma, l’economia lombarda, fortemente integrata e internazionalizzata, soffre di quel che accade nel mondo.

Non sappiamo, a oggi, quanto la crisi di Suez possa ancora durare ma, certamente, in ogni caso, il segnale è preoccupante. Se dovesse risolversi a breve, come ci si augura, sarebbe soltanto un avvertimento – con alcune perdite già causate – al gusto di minaccia, di quel che potrebbe accadere in futuro. Viceversa, se dovesse protrarsi a lungo i danni per la nostra economia e le nostre imprese sarebbero ingenti, con sconvolgimenti per tutto il sistema della logistica globale; uno scenario che abbiamo già assaggiato con il lockdown mondiale in epoca Covid. 

In entrambi i casi, le riflessioni da fare sono molteplici. Sempre secondo The Economist Intelligence Unit una escalation degli attacchi aumenterebbe notevolmente i costi per le catene di approvvigionamento globali, le imprese e i consumatori. Inoltre, le restrizioni nel Canale di Panama (le interruzioni nel Canale di Suez arrivano mentre una grave siccità ha ridotto i livelli dell’acqua e le traversate giornaliere delle navi nel canale di Panama, altra importante rotta commerciale globale), che sono particolarmente onerose per l’industria alimentare, è probabile possano durare per almeno tutto il 2024, e probabilmente anche oltre, quando gli impatti climatici inizieranno a farsi sentire.

Rallentamento degli scambi commerciali e rischio frenata industriale
Secondo Coeweb (Istat), il portale che fornisce statistiche sul commercio estero, nel terzo trimestre 2023 la Lombardia ha raggiunto i 4 miliardi di euro nelle esportazioni verso la Cina (3,35 per cento sul totale); 18,5 miliardi (15,22 per cento sul totale) se consideriamo l’export verso tutta l’Asia e 4,8 miliardi (4 per cento sul totale) verso il Medio Oriente. Se consideriamo le importazioni da quegli stessi paesi, sempre nel terzo trimestre 2023, parliamo di circa quattordici miliardi dalla Cina (10,61 per cento sul totale), 27,7 miliardi dal’Asia (21,16 per cento sul totale) e 2,5 miliardi dal Medio Oriente (due per cento sul totale). Insomma, dal Canale di Suez transitano svariati miliardi di euro di merci in entrata e in uscita dalla Lombardia da cui dipendono punti di Pil, bilanci aziendali, ordinativi, investimenti e prospettive occupazionali. 

Non solo, a rischio blocco sono anche le attività cosiddette back end, ovvero le fasi finali della catena globale del lavoro dove si scaricano le produzioni occidentali per le lavorazioni di assemblaggio e di basso valore aggiunto. In altre parole, da un blocco prolungato di Suez, possiamo temere una nuova ondata di crisi economica e occupazionale, su un tessuto produttivo che sta smaltendo i danni del Covid e quelli della guerra in Ucraina che non accenna a finire prolungando le sofferenze e i lutti per tantissime persone. 

L’aumento dei costi potrebbe produrre una nuova fiammata inflattiva che, ancora una volta, non sarebbe dovuta a un eccesso di domanda e quindi di moneta circolante ma a un nuovo aumento di costi, prezzi e tariffe. Un’inflazione difficile da contrastare, esattamente come quella recente affrontata dalla BCE con un aumento dei tassi di interesse, inutile e dannoso, che ha finito per scaricarsi su persone e imprese.

Geopolitica e collegamento sempre più stretto tra politiche economiche e politiche estere europee
Le imprese italiane, e lombarde in particolare, come dicevamo, sono ben inserite nelle catene globali delle produzioni. Con il Covid anche i più distratti si sono accorti di quanto le economie mondiali e industriali siano interconnesse. Se considerassimo la somma degli elementi e il ciclo logistico che caratterizzano produzioni complesse, come quelle che interessano le nostre imprese, possiamo tranquillamente affermare che queste tipologie di prodotto, prima di vedere definitivamente la luce, facciano due o tre volte il giro del mondo. 

Un’immagine che rende molto bene l’idea della complessità dei cicli produttivi, della lunghezza delle catene del valore e delle forniture e del livello di interdipendenza globale tra imprese e Paesi, lasciando quindi intravvedere le conseguenze che potrebbero nascere da un prolungato blocco del canale di Suez o dal manifestarsi di ulteriori conflitti in snodi economici fondamentali. Da qui l’esigenza, e l’urgenza, di accorciare le catene globali delle produzioni e di regionalizzarle mettendole al riparo da eventuali future, e non così impossibili, nuove pandemie e da tensioni geopolitiche appunto. 

Gli scenari e gli equilibri geopolitici mondiali, infatti, sono fattori decisivi per il dislocamento delle catene di fornitura e l’allocazione degli investimenti capaci di influenzare e condizionare la crescita economica di alcuni paesi a danni di altri. Per tale motivi, quindi, le politiche economiche dovranno sempre più coincidere con le politiche estere, essendo ormai chiaro che i due campi sono interdipendenti e in grado di influenzarsi a vicenda. Servono forti e inedite scelte politiche. 

Il ruolo dell’Unione Europea
Un ragionamento possibile solo con un’Unione Europea forte e capace di giocare il ruolo politico che le compete, ago della bilancia delle relazioni internazionali. Diversamente rischiamo di restare schiacciati, come vasi di coccio, in mezzo ai vasi di acciaio rappresentati da Stati Uniti e Cina e dalle nuove potenze che vanno emergendo in un vuoto di leadership mondiale e di classe dirigente diffusa che lasciano ampi spazi a oligarchie, democrature e dittature incompatibili con i sistemi economici e di produzione che conosciamo. Convitati di pietra, le tre transizioni epocali che stiamo attraversando, tecnologica-ambientale-demografica, che rischiano, se non guidate e accompagnate, di riversarsi su lavoro, industria e società, sconvolgendole e costringendoci a subirne gli effetti.

Concetti rappresentati anche da Fabio Sdogati e Daniele Langiu su scenarieconomici.com con un articolo dello scorso 10 dicembre in cui ragionavano sull’Europa e su come rivedere il patto di stabilità per puntare alla crescita, tenendo insieme la capacità di spesa con i vincoli di riduzione del debito: «Gli investimenti che servono all’Europa sono non quelli effettuati dai privati sulla base del principio della massimizzazione dei profitti, bensì quelli finanziati e indirizzati direttamente dai governi verso i settori produttivi ritenuti strategici». 

Per chiarezza, come sempre guardiamo agli Stati Uniti, dove le scelte di politica industriale sono guidate in modo non ambiguo dalle scelte di politica della sicurezza nazionale»; un richiamo al ruolo dell’Unione Europea in questa fase estremamente delicata e decisiva che chiede grande capacità di progettazione e visione. La Politica deve riprendere il controllo della situazione, diversamente l’Italia corre il rischio di veder sfumare le sue ambizioni di restare agganciata all’industria di qualità, quella inserita nei network globali, che punta sull’innovazione, sulla partecipazione e sulle produzioni intelligenti, a cui corrispondono salari migliori, valorizzazione delle persone e ambienti di lavoro sicuri e confortevoli. Questa non è un’opzione ma è la strada obbligata che bisogna imboccare perché, viceversa, saremmo condannati a rimanere intrappolati in un modello di industria fondato sulla riduzione dei costi, in contrazione occupazionale e salariale, dove precarietà e gerarchie rigide e vecchie sono la norma, finendo per far arretrare tutto il sistema paese. 

Tecnologie digitali e innovazione
I gravi ritardi dell’Italia sulle infrastrutture digitali devono essere colmati velocemente per prepararsi a una sfida in cui la capacità di leadership sul digitale coinciderà anche con il benessere industriale e con la sicurezza. Il Covid ci ha dimostrato che i problemi di un singolo paese possono mettere in difficoltà la catena globale del valore, con danni diffusi e difficili da contenere. Ancora una volta le tecnologie possono venirci in soccorso per aiutarci a costruire la certificazione di tutte le fasi del processo lungo, appunto, la catena globale del valore, realizzando dei veri e propri lasciapassare per chiunque voglia partecipare alla filiera, accettando queste regole. Gli anelli della catena globale del valore che non avranno queste certificazioni saranno tagliati fuori. 

Questo ci consentirebbe di conquistare sovranità industriale e di recuperare il gap accumulato. Una filiera certificata in questo modo, a maggior ragione con produzioni ad alto contenuto tecnologico, consentirebbe di spostare verso l’Europa il baricentro della catena globale del valore, candidando il nostro continente ad avere un ruolo di contrappeso economico e politico al potere di Stati Uniti e Cina, con benefici diffusi anche per il nostro Paese.

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