Credere, obbedire, rubareIl malefico zelo dei fascisti nel depredare gli italiani ebrei con le leggi razziali

Come scrive Ilaria Pavan nel suo “Le conseguenze economiche delle leggi razziali” (Il Mulino) i funzionari del regime operarono sequestri indiscriminati di ogni singolo bene, di qualsiasi natura, posseduto dagli ebrei: denaro, azioni, pensioni, gioielli, mobilio, indumenti, opere d’arte

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La svolta razzista del fascismo rappresentò nel complesso un’occasione eccellente per la burocrazia nostrana, spesso definita arruffona ed elefantiaca, di dimostrare efficienza e tempestività quando il vertice la chiamava a eseguire compiti ‘speciali’, con una sostanziale convergenza tra il rigore sollecitato da Roma e l’uso punitivo e persecutorio che i poteri locali facevano della discrezionalità loro concessa. Anche quando si verificarono comportamenti indirizzati alla difesa dei perseguitati – come si manifestò, in alcune occasioni, nel caso di banche o di società assicuratrici che inviarono all’estero loro dirigenti per proteggerli dalla bufera antisemita – è difficile stabilire il confine tra una condotta improntata alla schietta solidarietà e una scelta legata a ragioni di più concreto e cinico opportunismo: tentare di difendere dirigenti dall’indubbio profilo professionale significava infatti tutelare contemporaneamente anche gli interessi dell’azienda.

Se il responsabile delle Assicurazioni Generali per l’Africa orientale, Guido Cavalieri Bianchini, fu nel 1938 mantenuto nel suo incarico a dispetto della normativa razziale che ne imponeva il licenziamento, non fu certamente per ragioni morali, o di umana solidarietà. Il rapporto della polizia politica fascista che denunciava l’episodio al ministero dell’Interno segnalava infatti che «l’attuale direttore delle Generali di Venezia, ex segretario federale fascista di Ancona, non sa che pesci pigliare, in quanto tutto il personale tecnico di provata capacità è stato licenziato perché ebreo». Il nuovo direttore aveva così manifestato la necessità di mantenere ancora in servizio il capo dell’organizzazione della compagnia in Africa orientale, Cavalieri Bianchini appunto, semplicemente «perché insostituibile».

Ma al di là di singoli, circoscritti casi, da una settimana all’altra, le leggi razziali rappresentarono per migliaia di ebrei la chiusura di fiorenti commerci o di più modeste attività di ambulante, la perdita del lavoro tanto per gli impiegati del pubblico impiego che per i dirigenti d’azienda, per i liberi professionisti come per gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado. I numeri, da considerarsi ancora parziali, parlano di 1.063 ditte ebraiche, soprattutto esercizi commerciali, ma anche piccole imprese e banche private, costretti a cessare, a vendere o liquidare l’attività entro la primavera del 1943; o, ancora, sappiamo di 2.612 lavoratori allontanati forzatamente da istituti scolastici, pubblico impiego, università, forze armate, banche, assicurazioni, dalle libere professioni e dalla magistratura.

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Durante il primo quinquennio della persecuzione assistiamo inoltre a una notevolissima produzione di circolari – dal settembre 1938 al settembre 1943 ne furono emesse circa duecento– che, emanate dai vari ministeri o altri organi dello Stato, servirono ad anticipare, a specificare e a dare concretezza ai provvedimenti di carattere generale già emanati o a rendere operative disposizioni inedite, riferite ad ambiti fino a quel momento non ancora toccati dalla campagna razzista.

Si trattò di testi che aggravarono progressivamente la pressione nei confronti dei perseguitati in un continuo, talvolta giornaliero, stillicidio di iniziative vessatorie non apparentemente lineari ma, forse proprio per questo, ben più efficaci e pervasive di quanto non si sia pensato per lungo tempo: dall’impossibilità per le aziende ebraiche di stipulare contratti di appalto con la pubblica amministrazione, alla sospensione della concessione di mutui e prestiti bancari, dal vigile controllo volto a evitare ogni possibile esportazione di capitali all’estero da parte dei perseguitati, al divieto di esercitare anche l’attività di semplice venditore ambulante, come quella di portiere, di insegnante di ballo, di commesso di oreficeria e altro ancora.

Durante il quinquennio 1938-1943, in Italia si assistette così all’apparentemente disordinata, quanto in realtà sistematica e meticolosa, azione del legislatore fascista che nel complesso finì per coprire ogni ambito della vita pubblica e privata dei perseguitati, preferendo spesso agire attraverso misure di carattere amministrativo come le circolari, misure teoricamente non aventi la forza di legge, ma che come tali vennero recepite e applicate dalle amministrazioni periferiche dello Stato. Misure, inoltre, non pubbliche (le circolari non venivano rese note attraverso la «Gazzetta Ufficiale») e di cui gli stessi perseguitati venivano a conoscenza solo nel momento in cui l’ennesima disposizione invadeva e violava un ulteriore aspetto della propria vita.

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Il crollo del fascismo nell’estate del 1943, l’armistizio, la nascita di un governo postfascista nei territori del Sud già liberati dagli Alleati e l’avvio del governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana nel resto della penisola sottoposta all’occupazione nazista rappresentarono un ulteriore salto, qualitativo e quantitativo, nella persecuzione degli ebrei, anche nei suoi risvolti economici.

Ancora una volta, tuttavia, fu il governo collaborazionista fascista, in piena autonomia dall’alleato tedesco, a varare le nuove e più stringenti disposizioni. Le strutture ad hoc già create in precedenza dal regime mussoliniano per la gestione dei beni ebraici confiscati – si trattava dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (EGELI), istituito nel febbraio del 1939 e posto alle dipendenze del ministero del Tesoro – anche nei mesi dell’occupazione nazista rimasero sempre e unicamente controllate dai fascisti, senza alcun intervento o infiltrazione, neppure indiretta, da parte dei tedeschi, contrariamente a quanto avvenne nel Belgio, nell’Olanda e nella Francia occupate.

Se ovunque fu determinante l’azione dei nazisti nel decidere di avviare la fase delle spoliazioni, così non fu in Italia, dove ciò avvenne senza alcuna pressione tedesca; sarà infatti un ordine della polizia fascista del 30 novembre 1943 (poi perfezionato nelle settimane successive da un decreto di Mussolini) a inaugurare il momento dei sequestri indiscriminati di ogni singolo bene, di qualsiasi natura, posseduto dagli ebrei: denaro, azioni, pensioni, gioielli, mobilio, indumenti, opere d’arte, tutto. E anche i più semplici oggetti domestici come «un colino per té, una caffettiera in alluminio, una zuccheriera di bachelite, una tovaglia in cattivo stato» furono in quei mesi oggetto dei provvedimenti di sequestro andando a compilare lunghi elenchi la cui lettura ancora oggi colpisce tanto per la miseria materiale di quanto veniva sottoposto alla confisca, che per quella morale di chi tali disposizioni aveva ordinato. Misure persecutorie che, per ampiezza e minuziosità, furono paragonabili solo a quelle introdotte nell’Olanda occupata. A

lla fine della guerra risulteranno così complessivamente sequestrati 17.743 beni intestati a 7.920 ebrei, tra cui titoli di Stato per un valore nominale di 36.396.831 lire, titoli azionari per 731.442.219 lire, depositi bancari in contanti per un importo di 75.089.047,90 lire. Dalle autorità della Repubblica sociale vennero inoltre confiscati beni immobili – terreni e fabbricati – valutabili in 1.053.648.611 lire, mentre furono 231 le aziende sottratte agli ebrei di cui 70 vendute a compratori «ariani».

Tratto da “Le conseguenze economiche delle leggi razziali” (Il Mulino), di Ilaria Pavan, 25€, pp. 320

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