Alla fine del 2023 è uscito “Crossfire”, il docufilm sulla morte, il 24 maggio del 2014 a Sloviansk, località del Donbas allora sotto controllo delle forze separatiste filorusse, dei giornalisti Andrej Mironov e Andrea Rocchelli, sul ferimento del fotografo francese William Roguelon e sull’arresto e il processo di Vitaliy Markiv, un soldato della Guardia Nazionale con doppia cittadinanza italo-ucraina, accusato di omicidio volontario contro giornalisti troppo impiccioni – questo sarebbe stato il movente – che volevano documentare i crimini commessi dai “fascisti” di Kyjiv.
Il punto di partenza del lavoro realizzato da Cristiano Tinazzi assieme a Danilo Elia, Olga Tokariuk e Ruben Lagattolla – finanziato con una campagna di crowdfunding e grazie anche al contributo della fondazione Justice for Journalists – è la morte di Mironov e Rocchelli, vittime di un fuoco incrociato lungo la linea del fronte che divideva i separatisti filo-russi e le truppe ucraine. Verità troppo semplice per appagare i palati golosi di trame nere e bisognosi di asseverare la natura nobilmente resistenziale della guerra di Mosca contro l’Ucraina.
Il punto di arrivo è la conclusione della vicenda processuale, che dopo un percorso travagliato (condanna in primo grado confermata in Cassazione) ha riconosciuto la non colpevolezza di Vitaly Markiv.
“Crossfire” è un saggio notevole di contro-investigazione giornalistica, con un lunghissimo lavoro sul campo e con prove e testimonianze originali; qualcosa di molto diverso dallo stile e contenuto del giornalismo d’inchiesta all’italiana, ridotto per lo più alla pratica della ricettazione, propalazione e glorificazione degli atti di accusa, come è avvenuto anche in questo caso, con un colpevolismo d’ordinanza, pure aggravato da meccanismi di solidarietà corporativa, cui le maggiori organizzazioni della stampa italiana, dalla FNSI ad Articolo 21, si sono rigidamente attenute nel pretendere la condanna di Markiv come risarcimento dovuto al collega Rocchelli.
Di marca giornalistica d’altra parte è stata pure la scaturigine di questo processo kafkiano, quando un articolo comparso sul sito del Corriere della Sera nel 2014 – il resoconto de relato di una conversazione avuta da Markiv con un giornalista italiano, diverso dall’autrice dell’articolo – è stato nel 2017 interpretato come una cripto-confessione del delitto: Markiv, che si trovava di guardia alla propria postazione, a quasi due chilometri dal luogo in cui Rocchelli e Mironov sono stati colpiti, avrebbe orchestrato (e poi pure rivendicato a mezzo stampa!) l’omicidio dei giornalisti, malgrado – come si dimostra nel docufilm – da quella distanza non potesse riconoscere e distinguere assolutamente nessuno nel lato controllato dalle forze separatiste. Né soldati, né civili. Né amici, né nemici.
Chi vedrà il docufilm potrà meglio apprezzare tanto la totale inverosimiglianza del castello accusatorio, quanto la sua perfetta congruenza con il pregiudizio anti-ucraino che dal 2014 fino al 2022 – e pure dopo – ha accompagnato in Italia il racconto dello scontro tra il sogno europeo post Maidan di decine di milioni di ucraini e l’imperialismo post-sovietico del regime putiniano.
Il colpevolismo tuttora coltivato contro il “fascista” Markiv d’altra parte riecheggia perfettamente la scriminante “anti-nazista” che ancora oggi milioni di italiani riconoscono all’operazione speciale di Putin. E fa impressione notare come anche la Corte di Pavia, che condannò in primo grado Markiv, fosse preda delle narrazioni moscovite, al punto di qualificare nelle motivazioni della sentenza come “insorti ucraini” non i separatisti filo-russi, ma le truppe regolari di Kijv.
Il difensore di Markiv, l’avvocato Raffaele Della Valle, dopo la condanna di primo grado dichiarò che in cinquantadue anni di carriera non gli era mai capitato di vedere una cosa simile. E dire che – forza delle coincidenze e coincidenza delle abnormità – era stato l’avvocato di Enzo Tortora.
Però nell’universo delle verità alternative, pompate a forza di rubli, minacce e lusinghe per due decenni nelle vene dell’informazione e della politica italiana, non c’è niente di più normale che al totale ribaltamento della realtà storica dei fatti corrisponda anche quello della responsabilità dei crimini, di cui sono disseminate le guerre di Mosca.
Un caso giudiziario, una guerra, un’investigazione giornalistica, un lungo lavoro sul campo per ricostruire cos’è davvero successo il 24 maggio del 2014 in Donbas. «Crossfire» è infatti frutto di un lavoro investigativo realizzato dal giornalista Cristiano Tinazzi assieme ai colleghi Danilo Elia, Olga Tokariuk e Ruben Lagattolla e durato tre anni nel corso dei quali sono state intervistate decine di persone, in gran parte giornalisti e fotografi presenti in quei giorni a Sloviansk, la località del Donbas allora sotto controllo delle forze separatiste filorusse guidate dal famigerato Igor “Strelkov” Girkin, dove il giornalista russo Andrej Mironov e il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli sono stati colpiti a morte mentre svolgevano il proprio lavoro.
Un caso del quale Radicali Italiani si è da subito occupato con una intensa campagna politica, e che ha suscitato molto clamore in Italia e all’estero, ma anche numerosi dubbi sull’intero impianto accusatorio e sull’iter processuale che, dopo una condanna in primo grado, si è concluso con la piena assoluzione di Markiv.
Per ricostruire nei dettagli il quadro degli eventi e fare chiarezza sui numerosi punti della vicenda rimasti oscuri, Tinazzi e i suoi colleghi hanno trovato – e intervistato per la prima volta – testimoni chiave di quel tragico evento e hanno effettuato un’analisi scientifica dell’ambiente in cui si sono verificati i fatti, utilizzando tecnologie 3D.
Il film è stato realizzato grazie a una campagna di corwfounding, al contributo della fondazione Justice for Journalists (JFJ), partner della Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti. Con il patrocinio di FIDU – Federazione Italiana Diritti Umani e Nessuno tocchi Caino.