Questa è la storia di una tradizione mancata. Di una buona idea finita male. Di un panettone che non ce l’ha fatta. È la storia del Dolcesole d’Italia: il fu dolce nazionale autarchico (di lusso). L’idea, o meglio, l’urgenza di inventare un dolce che rappresentasse l’essenza del gusto nostrano, autarchico e fascista, scaturì dalla florida mente del rinomato pasticcere Giuseppe Ciocca (1867-1950), all’inizio del 1938. Per quanto ne possiamo sapere, il dolce fu prodotto almeno fino all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940. Poi, l’oblio.
Ma partiamo dall’inizio, partiamo da Giuseppe Ciocca. È considerato un pioniere della pasticceria moderna. Nacque a Treviglio, in provincia di Bergamo, nel 1867, dove frequentò corsi tecnici di pasticceria, per poi si trasferirsi a Milano come apprendista dell’allora celebre decoratore in zucchero Alberto Huber. Da lì in poi la sua carriera decollò, anche grazie alla capacità di scrittura e networking.
Curò manuali e ricettari di grande successo, per neofiti e non, dedicati all’arte della pasticceria, caramelleria, confetteria, gelateria, della dolciaria in generale; amministrò una nota fabbrica di confetti milanese; avviò un’esclusiva scuola professionale; collaborò o diresse svariate riviste di cucina e pasticceria, entrando così in un circuito di cuochi-redattori internazionali di grande prestigio. Dal gennaio del 1928, rifondò e diresse il Giornale dei pasticceri e confettieri, la seguitissima rivista tecnica dedicata ai professionisti del settore nella quale è custodita la storia del Dolcesole.
Insomma, uno dei più operosi pastry chef-scrittori di quel tempo, amato da editori e lettori, professionisti e massaie. Esperienza, creatività, maestria, piglio fiero, baffetto curato, carattere deciso. E, ahimè, fascista della prima ora.
Nel numero di febbraio 1938 del giornale, Ciocca lanciò la proposta per un concorso di idee fra gli affiliati al fine di creare la ricetta perfetta del nuovo dolce nazionale autarchico, di lusso, prodotto artigianalmente uguale da tutte le pasticcerie del Paese: geniale! Era il momento giusto per spingere sul corporativismo, sul sacrifico comune per il bene della Patria. L’unione fa la forza, si sa.
Per l’esattezza, inizia così:
«L’Italia è forse la nazione che possiede un’infinita varietà di dolci, ma un dolce veramente nazionale non si è ancora affermato come certe specialità note nelle altre nazioni e che segnano la vera caratteristica delle loro abitudini.
Il panettone di Milano, per esempio, in questi ultimi anni si è creato una fama mondiale ed è diffuso in tutte le città d’Italia, ma sarà sempre una specialità milanese perché solo a Milano, salvo poche eccezioni, viene fabbricato con tutte le regole e le cure che questo dolce richiede per la perfetta riuscita.
Noi vorremmo invece che vi fosse un dolce che in tutta Italia si possa far senza difficoltà ma che avesse tutte le caratteristiche di un dolce prettamente italiano, con materie del nostro territorio, e che dovrebbe segnare l’epoca della nostra evoluzione. (…)
Prima di rendere pubblico il nostro programma, attendiamo l’approvazione delle superiori autorità, e col loro appoggio e la buona volontà da parte dei nostri affezionati colleghi ed abbonati, abbiamo fiducia di riuscire a creare un prodotto che segni, in questi momenti di autarchia, l’epoca in cui viviamo, senza pregiudicare lo sviluppo delle specialità regionarie già esistenti.
La caratteristica di questo nuovo dolce dovrà dimostrare ai molti forestieri che visiteranno la grande esposizione di Roma, che l’Italia con mezzi propri può rispondere a tutti i bisogni della vita, compresi quelli che pur essendo di carattere voluttuario, rappresentano il benessere della popolazione».
Dopo l’iniziale entusiasmo e l’adesione in massa al progetto, Ciocca si rese però conto che mettere d’accordo decine e decine di pasticceri italiani, ognuno con a cuore le proprie tradizioni e prodotti locali, sarebbe stata una fatica troppo gravosa. Come dargli torto?
Decise quindi che avrebbe deciso lui la formula giusta, tenendo conto di tutte le istanze e le raccomandazioni ricevute dai soci. Va bene il corporativismo, ma fino a un certo punto!
Lavorò a lungo su ingredienti, dosi e cotture per esser certo della fattibilità e conservazione del prodotto finale. Rispetto alla ricetta definita, i singoli soci-pasticceri avrebbero potuto modificare il tipo di liquore (preferendo un prodotto locale) e la frutta usata (a seconda della stagione).
Entusiasta del risultato, presentò così il dolce ai suoi abbonati: «Ha l’aspetto del panettone ma non lo è. Sembra un bodino, ma pur racchiudendo della frutta, un bodino non è; non è neppure una torta pur essendo fatto di pasta montata».
E allora com’è? Lo abbiamo testato con lo chef Salvatore Garofalo del ristorante La Ratera di Milano, che si è prestato gentilmente al gioco, e possiamo affermare che ha la consistenza di un plumcake e la forma di un panettone: un plunkettone, verrebbe da dire con un po’ di ironia. Molto buono, inzuppabilissimo in una grande tazza di latte, ma niente di memorabile o particolarmente innovativo.
Ma torniamo alla storia. Che nome dare a questo futuro dolce tradizionale? Da astuto uomo di mondo, Ciocca pensò di chiederlo a Gabriele D’Annunzio, il miglior creativo sulla piazza, che avrebbe di certo trovato il nome più incisivo da tramandare ai posteri. E poi, vuoi mettere l’hype? Ma, ahimè, d’Annunzio morì da lì a poco, e quindi amen.
Poco male, la mente geniale del nostro Vate del lievitato riuscì a partorire anche quello. Ecco il suo ragionamento: «L’italia è ricca di sole (Helios), e il sole è il miglior collaboratore all’autarchia, dell’alimentazione generale della nazione. Ecco perché ho voluto dare al nuovo prodotto il nome di “Dolcesole” perché essendo composto esclusivamente con prodotti del suolo d’Italia è destinato a diventare il dolce nazionale, verrà chiamato il Dolcesole d’Italia e così i numerosi forestieri che verranno entusiasti da noi per ammirare il nostro bel sole, gusteranno anche il Dolcesole: dolce italiano».
Ciocca-one man show, diplomato a Brera e abilissimo nel disegno, avrebbe pensato anche al packaging, alla réclame e all’etichetta del dolce: il nome Dolcesole affiancato da un’aquila imperiale da una parte e dal fascio littorio dall’altra, simboli autarchici imprescindibili per un dolce che si professava italico e fascista. Pensò poi a far realizzare un piccolo stampo di zolfo e gesso per poter riprodurre un medaglione – da plasmare con pasta di mandorle – che rappresentava il Dio Sole, ricavato da un frammento negli scavi di Troia, «Da applicare sul Dolcesole qualora si volesse decorarlo».
Il pacco contenente cartelli réclame, opuscolo, fascette colla marca di fabbrica e tutto il corredo necessario per la perfetta fabbricazione e confezione del nuovo dolce, il materiale per la produzione e imballaggio (etichetta, sacchetti trasparenti, stampo, essenza Helios) sarebbero stati spediti ai soci a fronte di una piccola spesa per coprire i costi.
Nessun fine di lucro. Per Ciocca era una missione necessaria al Paese, alla sopravvivenza e all’evoluzione dell’arte dolciaria italiana, senza contare che avrebbe inciso il suo nome nell’olimpo dell’arte pasticciera, a imperitura memoria:
«Come abbiamo già detto lo scopo nostro non è speculativo. Tutti gli sforzi del Paese che lavora e produce oramai sono orientati nettamente, senza alcuna defezione, verso la conquista dell’autarchia, che va intesa nel senso di creare quelle condizioni basilari per cui la produzione deve fronteggiare i vari e vasti bisogni del consumo, senza ricorrere all’estero che nei limiti di quanto non possiamo produrre, per circostanze di fatto non dipendenti dalla nostra buona volontà.
Il “Dolcesole” essendo composto esclusivamente di prodotti del suolo italiano, è il dolce che segna l’epoca della nostra indipendenza economica.
Il corporativismo voluto bensì da quella preparazione spirituale per cui è possibile affrontare e risolvere qualsiasi problema.
Basta quindi un po’ di buona volontà in tutti i pasticcieri d’Italia, che approfittando di questo nostro scopo di spronare i pasticcieri d’Italia ad uniformarsi nel preparare un dolce di carattere Italiano composto esclusivamente di prodotti italiani è un po’ voluto e sentito dalle necessità del momento, momento di autarchia, momento di corporativismo ché tutto deve marciare con un controllo eguale per tutti, evitando sperequazioni di materie prime ed una più diligente distribuzione di attività e di guadagno a tutti, industriali, commercianti ed operai, secondo le proprie responsabilità e le categorie che rappresentano.
Non è detto che tutti i quarantaquattro milioni di abitanti debbano mangiare il nuovo dolce. Tutte le cose debbono avere un inizio e se l’inizio è compreso e bene improntato, il resto vien da sé a poco a poco».
A dispetto dei pronostici (di Ciocca e della redazione), le lamentele iniziarono quasi subito: per una buona parte dei soci, il dolce era troppo caro e non di facile riuscita.
Irrispettosi e incapaci, avrà di certo pensato il nostro eroe, tronfio e fiero del suo operato. A lui riusciva perfettamente, fine della storia. Era di lusso, l’aveva scritto e riscritto. Doveva rappresentare il meglio dell’Italia, del corporativismo, l’indipendenza dallo straniero, l’evoluzione dell’arte dolciaria! Quante volte doveva ripeterlo? Sarebbe diventato il dolce preferito da tutti, buono per la tavola di Capodanno e in spiaggia a Ferragosto, comprato al posto delle pastarelle, la domenica mattina. E poi, suvvia, per evitare che compaia la muffa dopo averlo incartato nel cellophane, basta fare attenzione che sia ben raffreddato e asciutto, no? Non ci vuole un genio!
Dopo averlo testato, possiamo dire che sì, è buono, ma decisamente caro, se contiamo che per 500 grammi di farine (semola, fecola e mandorle) abbiamo 600 grammi di zucchero, 500 grammi di burro, diciotto tuorli e sei uova intere. Troppo di tutto. E… sì, non è facilissimo riuscire a realizzarlo al meglio, soprattutto se pensiamo a una piccola produzione artigianale e a quanti pasticceri italiani potessero contare su impastatrici o altri macchinari tecnologicamente avanzati, tipo quelli sponsorizzati dal Giornale dei pasticceri.
Bisogna montare a lungo lo zucchero con il burro e aggiungere le uova, una alla volta, con pazienza. Lo chef Garofalo, rispetto alla ricetta originale, ha ridotto l’eccessiva quantità di zucchero, seguendo poi passo passo le indicazioni della ricetta originale. Ha aggiungo un bicchierino di Strega, il liquore più usato a quel tempo (nonché sponsor della rivista) e frutta fresca e secca. Unico elemento mancante per ritrovare il gusto originale: l’essenza Helios, creata appositamente per il Dolcesole e non più reperibile in commercio.
Il segreto della buona riuscita di questo dolce di lusso sta però nella fase di cottura: dopo qualche minuto in forno, appena il dolce ha raggiunto un buon punto di lievitazione, va sfornato con delicatezza, inciso a croce come si usa fare con il panettone, e poi infornato nuovamente fino alla cottura definitiva.
Nonostante le continue lamentele e richieste di chiarimenti, all’inizio del 1939 il dolce sembra fosse prodotto in parecchie pasticcerie del Paese, almeno secondo quanto scriveva Ciocca sulle pagine del suo giornale. Per facilitare un po’ il lavoro e placare un po’ gli animi, sottolineava il successo crescente del nuovo dolce, ben presto annoverato fra le specialità nazionali, e rilanciava proponendo la versione mignon, più facile da realizzare e perfetta da proporre ai tavolini delle pasticcerie, accompagnandola magari con un po’ di panna montata (il lattemiele) o crema pasticcera.
Nel numero di marzo, mentre la situazione socio-politica-economica prendeva una piega sempre più drammatica, Ciocca rincuorava i colleghi, incoraggiandoli a non abbattersi, ad affrontare le difficoltà con tenacia e corporativismo. A questo proposito, sempre in linea con la sua idea di evoluzione dell’arte dolciaria e gratificato dai successi lusinghieri del lussuoso e costoso Dolcesole, aveva ideato una versione più economica dello stesso, fatta con gli stessi stampi e incarti, più adatta al periodo di restrizioni: il Dolcefiore d’Italia, «il dolce più famigliare, più economico e prettamente italiano». Lo si poteva presentare con zucchero vanigliato e mandorle filettate o decorato con fiori di pasta di mandorle per conferirgli un aspetto elegante. Meno burro, meno zucchero, meno uova (dodici al posto di venti), niente frutta.
«L’italia, giardino d’Europa, ha bene il diritto di dare ai suoi prodotti dei nomi italianissimi che possano simboleggiare il suo bel clima e la flora che abbondantemente cresce ad abbellire i suoi splendidi panorami.
Il Dolcefiore d’Italia che consigliamo ai nostri colleghi è appunto un dolce leggero, profumato e delicatissimo, risponde a tutti i requisiti che volevamo raggiungere ed entra così a far parte dei nuovi prodotti dolciari italiani autarchici, voluti dal regime, arricchendo l’assortimento dei nostri prodotti nazionali, fabbricati esclusivamente con materie prime ricavate dal nostro suolo».
Man mano che si avvicinava lo scoppio della guerra mondiale, lo spazio sul giornale dedicato ai dolci nazionali andava diminuendo, fino al marzo 1941, quando in prima pagina compare questo annuncio:
«Pasticceria e Panettoni proibiti dal 1º Marzo.
Il Ministero dell’Agricoltura e Foreste comunica che a datare dal 1° manzo sono sospesi la fabbricazione ed il commercio della pasticceria fresca che impieghi farina, latte, olio, burro ed altri grassi. Da tale data sono anche sospesi la fabbricazione ed il commercio della gelateria che impieghi latte e derivati, mentre è consentita la vendita in tutti i giorni dei gelati preparati con frutta. Sempre dalla stessa data è altresì sospesa la fabbricazione dei panettoni restando consentita la vendita della produzione esistente fino a tutto il 15 marzo».
Le nuove disposizioni convinsero il ducetto dell’arte pasticciera ad accantonare il progetto Dolcesole, e a rilanciare il più economico Dolcefiore, modificando pesantemente le dosi di burro, zucchero e farina di frumento: 450 grammi di zucchero, soli 20 grammi di farina di frumento e 200 di fecola, dodici uova, 50 grammi di burro e scorza e succo di arancia. Un altro dolce, un’altra storia.
Da qui in poi, a guerra iniziata, le notizie e gli approfondimenti sui nuovi dolci autarchici andarono pian piano scomparendo. Il Giornale dei pasticcieri, anzi, il Giornale di Ciocca chiuse i battenti nel maggio del 1943 a causa della guerra. Riaprì nel 1946, come se niente fosse, e rimase a dirigerlo fino alla sua morte, nel 1950.
Per nostra fortuna, i due nuovi dolci autarchici furono inseriti nel suo manuale “Il pasticciere e confettiere moderno”, edito da Hoepli, ed è lì che le abbiamo riscoperte, approfondendo poi la ricerca alla Biblioteca Braidense di Milano che conserva l’archivio della rivista.
Al netto del pensiero fascista, era una buona idea, gestita e finita male. La tradizione mancata di un panettone che non ce l’ha fatta.
Tutte le fotografie sono di Samanta Cornaviera