Servizio di (falsa) credenzaGastronazionalismo, probabilmente

La tradizione culinaria italiana è intrisa di falsi miti, la sua storia è più recente di quello che pensiamo e soprattutto è il risultato di trasformazioni e contaminazioni continue. Facciamocene una ragione

Foto di Brooke Lark su Unsplash

Un emerito studioso di storia della scienza e della cultura degli alimenti, il professore Alberto Grandi, rilascia un’intervista al Financial Times: un grande esperto, su un giornale conosciuto e apprezzato nel mondo. L’esperto ha scritto di recente un libro divertente che sfata molte false credenze, miti, sciocchezze palesi su molti piatti della tradizione italiana. Lo fa da studioso, lavorando per molti mesi, raccogliendo dati, documenti storici. In linea di massima con un approccio non confutabile, oggettivo, scientifico.

La tesi di fondo è che la tradizione del cibo italiano è in larga misura falsa; inventata dopo la seconda guerra mondiale, perché prima non avevamo conoscenza e consapevolezza neppure delle diverse tradizioni al di fuori del nostro luogo di residenza, escluse alcune migliaia di persone che per ricchezza o per lavoro viaggiavano con una certa regolarità. Di conseguenza, la tradizione è un continuo divenire, per via del continuo mescolamento di prodotti, uno scambio continuo di informazioni, di culture, di territori. Si dimostra come occorra sempre mantenere una posizione “critica” cioè attenta, consapevole e scrupolosa sui fatti, anche se si discute di argomenti gastronomici che, consentiteci la presunzione, sono argomenti di cultura e di identità non secondari. Innanzitutto perché se non ci nutriamo sono guai, e poi perché mangiare vuol dire stare insieme, discutere, ritrovarsi, riconoscersi nei gesti e nei sapori, nei profumi, nelle abitudini.

Per farlo, Grandi usa alcuni esempi, tutti rigorosamente documentati, e mette in discussione dei piatti che rappresentano oggi al meglio la tradizione italiana ma in realtà, per verità di ricerca storica non lo sono così tanto.

La cucina italiana non ha una storia millenaria o secolare ma ha una storia recente. Certo, esiste una linea di continuità sulla quale il professore sorvola, perché non è il tema della discussione; i piatti italiani famosi in Italia e nel mondo come piatti identitari e nazional popolari sono giovani. Facciamo solo alcuni esempi: la pasta al pomodoro e le sue varianti hanno soltanto 150 anni, perché il pomodoro si afferma in tutta Italia come prodotto di massa e popolare solo quando la grande industria conserviera si attiva, nel Nord Italia con la mitica Cirio. Prima il pomodoro di fatto è un prodotto tipicamente stagionale e solo meridionale. L’adorato panettone era un dolce piuttosto tozzo, basso, comune; un pandolce arricchito con uvetta e canditi di probabile seppure incerta origine ligure. Certo, pani dolci e arricchiti se ne preparano da secoli in molte zone di Italia, ma non il panettone, che è un dolce nato negli anni ’20 del secolo scorso a Milano e si è poi diffuso in tutta Italia sino a diventare il dolce tradizionale del Natale in tutto il Paese solo negli ani ’50, grazie allo sviluppo delle grandi industrie alimentari, nello specifico Motta-Alemagna.

Il tiramisù, il dolce italiano più famoso al mondo, registrato per la prima volta in uno scontrino di una trattoria friulana; era una sorta di zuppa inglese piuttosto liquida a base di zabaione e liquore. La prima ricetta è di fine anni Cinquanta; poi è stata rielaborata e rivista parecchio. È scritta e servita in un ristorante di Treviso, un biscotto imbevuto al caffè alternato a strati di zabaione freddo e mascarpone. Tiramisù non a caso, e non particolarmente elegante.

La carbonara non ha nulla a che fare con i moti carbonari ottocenteschi e la tesi più probabile è che la pasta cacio e pepe sia stata mescolata a eggs and bacon presenti nelle razioni dei militari americani. Oggi se non si prepara con guanciale è un delitto, ma di certo non è nata cosi. Il Comune di Amatrice ha voluto codificare la ricetta dell’amatriciana, che, come diceva Aldo Fabrizi, si prepara rigorosamente senza aglio e senza cipolla. Ma se discutessimo di prodotti e non di ricette potremmo facilmente affermare che il vino di nonno era certamente genuino ma mediocre e che il formaggio “di una volta” non era sempre dei migliori.

Ed ecco, a proposito di formaggio, la notizia che più ha fatto arrabbiare più di un politico nazionalista populista da bar dello sport: il Parmigiano Reggiano si produce nel Wisconsin (Usa), dove una piccola comunità di italiani ha continuato a farlo come si faceva più di duecento anni fa, quando la tecnologia e il mercato non ci consentivano di farlo come lo si produce oggi. Erano forme di circa dieci chili di formaggio a crosta scura; molto diverso da quello attuale. Ovviamente il Parmigiano Reggiano che oggi possiamo chiamare tale è rispettoso di un disciplinare molto rigido e può essere prodotto, per fortuna, soltanto con latte altamente selezionato, proveniente da determinate vacche, allevate in circoscritti territori italiani. È fuori discussione. Ma ancora una volta la tradizione si è decisamente evoluta, ed è diversa da quella che ci vogliono far credere.

Se infine discutiamo di ristorazione, allora è evidente a chiunque che negli ultimi quarant’anni in Italia si sono presentate e sono cresciute decine di proposte alimentari sino ad allora impensabili: la cucina americana dei fast food, la cucina cinese, la cucina araba del kebab, la cucina giapponese, la cucina tex-mex. Cucine che fatturano centinaia di milioni: sono tutte queste “vere” o presunte tali? Anche in questo caso, sono autenticamente tradizionali o reinventate per il gusto occidentale?

Gli stili alimentari, i prodotti, le ricette, le proposte gastronomiche cambiano. Poi c’è il Mulino Bianco e molti ci credono: ma è solo marketing, è storytelling che cavalca la grande tradizione. Abbiamo bisogno di una identità, anche gastronomica; molti piatti e prodotti sono certamente italiani e tradizionali, ma sono frutto di incontro e di scambio.

Chiudiamo con la pizza: in assoluto il piatto più italiano al mondo e anche quello più amato, consumato e maltrattato.
È patrimonio italiano da sempre? Diremmo proprio di no. A Milano la prima pizzeria fu aperta nel 1929, ma solo negli anni Sessanta le pizzerie si affermeranno al Nord. Fino ad allora i milanesi andavano in trattoria o al ristorante. Oggi a Milano città si contano 1300 pizzerie (dati di Confcommercio), 600 delle quali sono a gestione straniera. Ma di che cosa stiamo parlando? Di gastronazionalismo, probabilmente.

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