Nello scorso agosto, in occasione del primo dibattito della campagna per le primarie del Partito Repubblicano in vista delle elezioni presidenziali americane del 2024, ai rivali di Donald Trump è stato chiesto: alzi la mano chi pensa che sosterrà la candidatura dell’ex presidente anche nel caso in cui quest’ultimo venisse «condannato in un tribunale». Peraltro, il tentativo di Trump di rovesciare le elezioni del 2020 non è stato solo un potenziale reato penale. È stato anche una violazione della regola fondamentale della democrazia: i politici devono accettare i risultati delle elezioni, sia che le abbiano vinte sia che le abbiano perse.
Ma è sembrato che sul palco su cui si stava svolgendo quel dibattito tutto questo avesse poca importanza. La mano che si è alzata per prima è stata quella di Vivek Ramaswamy. Poi tutti gli altri candidati più importanti hanno seguito il suo esempio, alcuni con entusiasmo, altri con più esitazione e uno dopo aver lanciato delle occhiate furtive a destra e a sinistra.
Un comportamento del genere potrebbe sembrare relativamente innocuo – un piccolo atto di codardia politica volto a evitare l’ira della base. Ma questa banale acquiescenza è molto pericolosa. Un singolo autocrate, anche quando si tratti di un demagogo che gode di consenso popolare, non è mai sufficiente per distruggere una democrazia. Gli assassini della democrazia hanno sempre dei complici tra i politici tradizionali che siedono nelle stanze del potere. La più grande minaccia alla nostra democrazia non proviene tanto da un demagogo come Trump o dai suoi seguaci estremisti come quelli che hanno preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio del 2021, quanto piuttosto dai politici ordinari (molti dei quali, quel giorno, si trovavano all’interno del Campidoglio) che lo proteggono e gli permettono di fare quello che fa.
Il problema che i leader Repubblicani si trovano ad affrontare – e cioè l’emergere nel loro stesso campo ideologico di una minaccia autoritaria che gode di una certa popolarità – non è certo nuovo. Varie generazioni di leader politici di tutto il mondo hanno dovuto confrontarsi con analoghe sfide. In Europa, negli anni Venti e Trenta, i partiti mainstream di centrosinistra e di centrodestra dovettero destreggiarsi in un mondo politico in cui gli estremisti antidemocratici della sinistra comunista e della destra fascista affascinavano le masse e ne ottenevano il favore. E in gran parte del Sud America, negli anni Sessanta e Settanta, i partiti tradizionali scoprirono che molti di quelli che ne facevano parte stavano iniziando a simpatizzare per i guerriglieri di sinistra, che puntavano a una rivoluzione armata, o per i gruppi paramilitari di destra, che agivano con l’intento di consegnare il potere politico nelle mani dell’esercito.
Il politologo spagnolo Juan Linz ha spiegato che quando i politici tradizionali si trovano di fronte a questo tipo di situazione, possono procedere in due modi.
Da un lato, i politici possono agire come dei democratici leali, facendo prevalere la difesa della democrazia sulle loro ambizioni a breve termine. Questi democratici leali condannano pubblicamente i comportamenti autoritari e si adoperano perché chi li mette in atto sia chiamato a risponderne, anche qualora si tratti di qualcuno che appartiene alla loro stessa parte politica. I democratici leali espellono dai loro partiti gli esponenti che manifestano comportamenti antidemocratici, rifiutano di appoggiarli qualora si candidino, rifuggono da qualsiasi collaborazione con loro e, se necessario, uniscono le forze con i propri rivali ideologici per isolare e sconfiggere questi estremisti. E lo fanno anche quando questi ultimi godano di ampia popolarità presso la base del partito. Il risultato, ci dice la storia, è che l’applicazione in campo politico di una siffatta paratia antincendio può aiutare una democrazia a sopravvivere anche a periodi di intensa polarizzazione e crisi.
In alternativa – ed è una cosa che succede troppo spesso – i politici diventano, per usare una definizione di Linz, dei democratici semi-leali. A prima vista, i democratici semi-leali sembrano dei democratici leali. Sono dei rispettabili politici di lungo corso che fanno parte dell’establishment. Si vestono con giacca e cravatta e non in mimetica militare, professano il proprio impegno per la democrazia e, apparentemente, ne rispettano le regole. Li vediamo in Parlamento e nelle residenze ufficiali degli amministratori locali. E li vediamo anche sul palco, impegnati in qualche dibattito. Così, quando le democrazie muoiono ammazzate, può essere che sull’arma del delitto non venga trovata nessuna impronta dei democratici semi-leali.
Ma, se analizziamo da vicino le storie dei Paesi che hanno vissuto un’interruzione della democrazia – partendo dall’Europa nel periodo tra le due guerre, passando poi per l’Argentina, il Brasile e il Cile degli anni Sessanta e Settanta e arrivando fino al Venezuela dei primi anni Duemila – notiamo uno schema evidente: i democratici semi-leali giocano un ruolo fondamentale nel favorire chi ha mire autoritarie.
Invece di tagliare i ponti con gli estremisti antidemocratici, i democratici semi-leali li tollerano e danno loro ospitalità. Invece di condannare gli atti antidemocratici commessi dai propri alleati ideologici e di chiedere loro conto di questi comportamenti, i democratici semi-leali chiudono un occhio, negando, minimizzando o addirittura “coprendo” tali atti – spesso attraverso quel meccanismo elusivo che oggi viene chiamato “allorismo” [e cioè la tendenza a voler sempre giustificare se stessi o altri dicendo “e allora…”, cercando di spostare così l’attenzione su qualcos’altro – ndr]. Oppure, semplicemente, tacciono. E, quando si trovano di fronte alla necessità di decidere se unire le forze con i tradizionali avversari politici per difendere la democrazia o preservare le relazioni con quelli della propria parte che manifestano comportamenti antidemocratici, i democratici semi-leali scelgono questa seconda strada.
A rendere così pericolosi i democratici semi-leali è proprio la loro rispettabilità. Dal momento che fanno parte dell’establishment, i democratici semi-leali possono usare la loro posizione e la loro autorevolezza per far apparire come normali gli estremisti antidemocratici, per proteggerli dai tentativi di chiedere loro conto in tribunale dei loro comportamenti e per renderli ancora più forti, aprendo loro le porte dei media mainstream, mettendoli in contatto con potenziali donatori per le campagne elettorali e ponendo altre risorse alla loro portata. Ed è proprio questo sottile sdoganamento delle forze estremiste l’elemento che può indebolire fatalmente le democrazie.
Esaminiamo, ad esempio, la storia della Francia. Il 6 febbraio 1934, nel centro di Parigi, migliaia di uomini scontenti e arrabbiati – veterani di guerra e militanti di gruppi violenti di destra – si riunirono vicino al Parlamento mentre i deputati si preparavano a votare per un nuovo governo. I manifestanti lanciarono sedie, grate metalliche e pietre e usarono dei pali alle cui estremità erano state applicate delle lame da rasoio per cercare di sfondare le porte del Parlamento. I deputati, che temevano per la propria vita, si videro costretti a uscire di nascosto dall’edificio. Ci furono diciassette morti e migliaia di feriti. Sebbene i rivoltosi non fossero riusciti a prendere l’edificio del Parlamento, raggiunsero comunque uno dei loro obiettivi: il giorno successivo il primo ministro centrista si dimise e fu sostituito da un primo ministro di destra.
Sebbene la democrazia francese fosse sopravvissuta all’attacco al Parlamento del 6 febbraio, la reazione di alcuni politici di spicco ne aveva indebolito le difese. Molti politici centristi e di centro-sinistra reagirono da democratici leali, condannando pubblicamente e inequivocabilmente la violenza. Ma molti politici conservatori non fecero altrettanto. Alcuni esponenti di primo piano del principale partito conservatore francese, la Federazione Repubblicana, molti dei quali quel 6 febbraio di trovavano all’interno del palazzo del Parlamento, simpatizzarono pubblicamente con i rivoltosi. Alcuni lodarono gli insorti come eroi e patrioti. Altri minimizzarono l’importanza dell’assalto, negando che si fosse trattato di un complotto organizzato per rovesciare il governo.
Quando fu istituita una commissione parlamentare per indagare sugli eventi del 6 febbraio, i leader della Federazione Repubblicana sabotarono l’inchiesta a ogni passo, bloccando anche i più timidi tentativi di perseguire i rivoltosi per le loro azioni. Protetti dal rischio di finire a processo, molti degli organizzatori dell’insurrezione poterono così continuare la loro carriera politica. Alcuni dei rivoltosi formarono poi l’organizzazione Vittime del 6 febbraio, un gruppo simile a una confraternita che in seguito servì come canale per reclutare sostenitori del cosiddetto governo di Vichy, formatosi in seguito all’invasione tedesca del 1940 e allineato con i nazisti.
L’incapacità di chiamare gli insorti del 6 febbraio a rispondere delle proprie azioni in tribunale contribuì a legittimare le loro idee. I conservatori francesi di stampo più tradizionale cominciarono a far propria l’idea – un tempo circoscritta ai circoli estremisti – che la loro democrazia fosse irrimediabilmente corrotta, disfunzionale e infiltrata da comunisti ed ebrei. Storicamente, i conservatori francesi erano stati nazionalisti e fermamente antitedeschi. Ma nel 1936 molti di loro disprezzavano a tal punto il primo ministro socialista Léon Blum da adottare lo slogan “Meglio Hitler che Blum”. E, quattro anni dopo, costoro accettarono il dominio nazista.
La semi-lealtà dei principali politici conservatori indebolì fatalmente il sistema immunitario della democrazia francese. Poi furono i nazisti, naturalmente, a darle il colpo di grazia.
Mezzo secolo dopo, i politici spagnoli reagirono in modo molto diverso a un violento assalto al Parlamento. Dopo quattro decenni di dittatura, alla fine degli anni Settanta la democrazia spagnola era stata finalmente ripristinata. I primi tempi, però, furono segnati dalla crisi economica e dal terrorismo separatista. Il 23 febbraio 1981, mentre il Parlamento stava eleggendo un nuovo primo ministro, duecento appartenenti alla Guardia civil fecero irruzione nell’edificio e ne presero il controllo, tenendo in ostaggio sotto la minaccia delle armi i trecentocinquanta deputati. Gli ideatori di quel golpe speravano di insediare come primo ministro un generale conservatore, una sorta di Charles de Gaulle spagnolo.
Il tentativo di colpo di Stato fallì grazie al rapido e decisivo intervento del re, Juan Carlos I. Quasi altrettanto importante, però, fu la reazione dei politici spagnoli. I leader di tutto lo spettro ideologico – dai comunisti ai conservatori che avevano a lungo appoggiato la dittatura franchista – denunciarono con forza il colpo di Stato. Quattro giorni dopo, più di un milione di persone marciarono per le strade di Madrid per difendere la democrazia. Alla testa della manifestazione, i politici comunisti, socialisti e centristi e anche i conservatori post-franchisti marciarono fianco a fianco, mettendo da parte le loro rivalità ideologiche per difendere insieme la democrazia. I leader del tentato golpe furono arrestati, processati e condannati a lunghe pene detentive. I colpi di Stato in Spagna divennero di fatto impensabili e la democrazia ebbe modo di radicarsi. Quando i democratici leali uniscono le forze per condannare gli attacchi alla democrazia, isolare i responsabili di tali attacchi e chiedere loro conto in tribunale di eventuali illeciti, è allora che si difende davvero la democrazia.
Purtroppo, in America, l’attuale Partito Repubblicano assomiglia più alla destra francese degli anni Trenta che a quella spagnola dei primi anni Ottanta. In seguito alle elezioni del 2020, in quattro momenti decisivi, i leader Repubblicani hanno consentito il manifestarsi di comportamenti autoritaristi. In primo luogo, invece di aderire alla regola fondamentale secondo la quale dopo la vittoria di Joe Biden a novembre avrebbero dovuto accettare il responso delle urne, molti leader Repubblicani hanno invece messo in dubbio il risultato o sono rimasti in silenzio, rifiutandosi di riconoscere pubblicamente la vittoria di Biden. Il vicepresidente Mike Pence si è congratulato con Kamala Harris, che gli è succeduta, solo a metà gennaio del 2021. Il Republican Accountability Project, un gruppo di controllo Repubblicano che opera a favore della democrazia, ha valutato le dichiarazioni pubbliche di 261 membri Repubblicani del 117esimo Congresso dopo le elezioni. E hanno rilevato che 221 di loro – e cioè l’85 per cento – hanno espresso pubblicamente dei dubbi sulla legittimità della vittoria di Biden o comunque non l’hanno pubblicamente riconosciuta. Inoltre, all’indomani della rivolta del 6 gennaio, quasi due terzi dei deputati Repubblicani alla Camera dei rappresentanti hanno votato contro la certificazione dei risultati. Se i leader Repubblicani non avessero incoraggiato il negazionismo elettorale, il movimento Stop the steal avrebbe finito per affievolirsi e forse il Campidoglio non sarebbe stato preso d’assalto da migliaia di sostenitori di Trump nel tentativo di rovesciare le elezioni.
In secondo luogo, dopo che Trump è stato messo sotto impeachment dalla Camera dei rappresentanti per l’insurrezione del 6 gennaio 2021, i Repubblicani al Senato hanno votato a stragrande maggioranza per la sua assoluzione, anche se molti avevano ammesso che, per citare le parole del senatore Mitch McConnell, il presidente era «praticamente e moralmente responsabile» dell’attacco. L’assoluzione ha permesso a Trump di continuare la sua carriera politica nonostante avesse cercato di bloccare un pacifico passaggio di consegne. Se invece il Senato lo avesse condannato, la legge gli avrebbe impedito di ricandidarsi alla presidenza. In altre parole, i senatori Repubblicani avevano la chiara opportunità di garantire che una figura apertamente antidemocratica non sarebbe mai più entrata alla Casa Bianca ma quarantatré di loro, incluso McConnell, si sono rifiutati di coglierla.
In terzo luogo, i leader Repubblicani avrebbero potuto collaborare con i Democratici per creare una commissione indipendente che indagasse sulla rivolta del 6 gennaio. Se entrambi i partiti avessero unito le forze per cercare di individuare e punire i responsabili dell’insurrezione, gli eventi di quel giorno sarebbero passati alla storia degli Stati Uniti (e probabilmente sarebbero stati considerati in questi termini da una più ampia porzione di americani) come un attacco criminale alla nostra democrazia che non avrebbe mai più dovuto verificarsi, proprio come era avvenuto dopo il tentativo di colpo di Stato in Spagna del 1981. Il rifiuto da parte dei leader Repubblicani di sostenere un’indagine indipendente ha mandato in frantumi ogni possibile consenso attorno ai fatti del 6 gennaio, e ha reso molto più improbabile l’eventualità che gli americani possano addivenire alla convinzione condivisa secondo cui tali eventi sono del tutto inaccettabili.
Infine, con pochissime eccezioni, i leader Repubblicani affermano che continueranno a sostenere Trump anche qualora venisse condannato per aver complottato al fine di ribaltare l’esito del voto. Esistono delle alternative. Il Comitato nazionale Repubblicano potrebbe dichiarare che il partito non nominerà un individuo che rappresenta una minaccia per la democrazia o che è stato incriminato per gravi accuse penali. Oppure i leader Repubblicani potrebbero dichiarare congiuntamente che, per il bene della democrazia, appoggeranno Biden se Trump sarà il candidato Repubblicano. Una mossa del genere, ovviamente, distruggerebbe le possibilità di vittoria del partito nel 2024. Ma, tenendo Trump fuori dalla Casa Bianca, contribuirebbe a proteggere la nostra democrazia.
Se i leader Repubblicani continueranno ad appoggiare Trump, finiranno ancora una volta per farlo apparire normale e per comunicare agli americani che, in fin dei conti, si tratta di una scelta accettabile. La corsa del 2024 diventerà, proprio come nel 2016, un’altra “normale elezione” in cui i rossi si misurano con i blu. E, come nel 2016, Trump potrebbe vincere.
L’acquiescenza dei leader Repubblicani all’autoritarismo di Trump non è né inevitabile né ineluttabile. È una scelta.
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