Mojahed Kourkour ha trentotto anni ed è in carcere nella prigione di Ahvaz, nell’Iran occidentale, da novembre 2022. La Corte Suprema della Repubblica Islamica lo ha condannato a morte e nei prossimi giorni il regime di Teheran potrebbe compiere l’esecuzione. L’accusa contro di lui è puramente strumentale, creata ad arte: avrebbe ucciso un bambino di nove anni, Kian Pirfalak, sparando durante una manifestazione del movimento “Donna, Vita, Libertà” interrotta dalle forze di sicurezza iraniane.
Solo che quest’accusa non sta in piedi. Tutte le indagini esterne – compresa un’inchiesta della Bbc – hanno concluso che Kourkour non è colpevole, e la stessa famiglia di Kian ha ripetuto più volte che Kourkour non c’entra niente con quell’episodio: il padre di Kian, Meysam, ferito quel giorno, dice che a sparare è stato Mohammad Alipour, membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC).
Il caso di Mojahed Kourkour non è unico. Anzi, è una storia come tante altre in Iran, a causa di un regime che ogni giorno viola i diritti umani e da tempo ha aumentato il numero delle esecuzioni di condanna a morte ai danni della popolazione. I dati ricavati da Amnesty International, l’Iran è al secondo posto nel mondo per numero di esecuzioni dopo la Cina. E l’ultimo report dell’Organizzazione per i Diritti Umani Hengaw descrive una preoccupante escalation negli ultimi anni: si è passati dalle trecentoquattordici esecuzioni capitali del 2021 alle cinquecento settantasei del 2022, fino alle ottocentoventitré del 2023.
Parte da questi numeri atroci l’appello, rivolto all’intera comunità internazionale, per fermare le violazioni dei diritti umani in Iran. «La nostra prima richiesta è proprio congelare la condanna a morte», dice a Linkiesta Rayhane Tabrizi, attivista della dissidenza iraniana che ha firmato l’appello. «Con le proteste che hanno fatto seguito alla morte di Mahsa Amini, a settembre 2022, c’è stata un’accelerazione delle esecuzioni, anche di persone che magari erano da anni in carcere, per creare ancora più terrore nella popolazione».
Proprio come accaduto con Mojahed Kourkour, molte condanne sono basate su finte accuse (qui un elenco esteso dei prigionieri politici condannati a morte, o a rischio): attivisti e dissidenti quasi ogni giorno vengono accusati di traffico di droga o altri reati fittizi. «E lo stesso avviene con la comunità Lgbtq+, che non riconosciuta dalla Repubblica islamica e quindi formalmente non viola nessuna legge, ma molti suoi esponenti ricevono una vera condanna sulla base di finte accuse in tribunali che sentenziano in cinque minuti», aggiunge Tabrizi.
L’appello alla comunità internazionale di “Unity to end executions in Iran” è quindi rivolto ai presidenti, capi di Stato e di governo, dei più importanti Paesi del mondo, da Joe Biden a Rishi Sunak, da Justin Trudeau a Anthony Albanese, a tutti i presidenti degli Stati membri dell’Unione europea, ai vertici delle istituzioni europee e al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres. E poi, ancora, ad Amnesty International, all’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu Volker Türk e a Human Rights Watch.
«Imploriamo le Nazioni Unite e la comunità internazionale affinché intervengano tempestivamente in questa vicenda ed esercitino la loro influenza per fermare tutte le condanne a morte. L’uso sistematico della pena di morte come strumento di repressione richiede attenzione immediata. Vi esortiamo a mobilitare tutte le risorse a vostra disposizione per intervenire in modo rapido e deciso nella difesa del diritto alla vita», si legge nell’appello, che poi chiede di giudicare il presidente iraniano Ebrahim Raisi, la guida suprema Khamenei e tutti i giudici responsabili per le atrocità commesse ai danni dei cittadini iraniani.
Un buon primo passo, suggeriscono i promotori della richiesta, potrebbero essere azioni minori ma politicamente significative, come per mandare un messaggio al regime iraniano. «La call to action contenuta in quell’appello è veramente semplice e di immediata ricezione per qualunque governo», spiega Tabrizi. «Se in un primo momento le proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà” chiedevano azioni enormi subito, come la chiusura delle ambasciate iraniane in tutti i Paesi, o l’interruzione di qualunque relazione politico-economica con Teheran, qui si parla di azioni minori, in un certo senso, quindi più facilmente applicabili».
Si chiede alla comunità internazionale di espellere un diplomatico iraniano dal Paese, inserire dieci funzionari della Guardia della Rivoluzione islamica nell’elenco delle sanzioni, e escludere un gruppo di beni dal commercio con l’Iran per ogni prigioniero politico assassinato dal regime. Perché la Repubblica islamica in Iran deve essere ritenuta responsabile delle atrocità commesse su base quotidiana.
Sono richieste relativamente piccole, in linea con una politica graduale, fatta di piccoli passi, per abbattere il regime degli ayatollah un gesto alla volta. «Sappiamo che molte delle cose che chiediamo, come attivisti, sembrano influire poco, ma lentamente ci conducono all’obiettivo principale», dice Tabrizi. Anche perché, ad esempio, minare il potere del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica porta sempre con sé conseguenze più grandi di quel che sembra: «Più del settanta per cento dell’economia dell’Iran viene gestita da loro, quindi bloccando le loro operazioni, ad esempio inserendoli nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, riusciamo a bloccare anche tantissima attività economica del regime, indebolendo la struttura economica del regime», aggiunge l’attivista iraniana.