Ci siamo lasciati qualche giorno fa raccontandovi l’alba di uno dei ristoranti italiani più reali di New York. Nella città che ancora oggi porta le cicatrici evidenti di due anni pandemia, senza essersi ancora del tutto svegliata e protagonista di un’inflazione senza freni, la ristorazione resta un punto saldo. In particolare, i locali che portano alta la bandiera italiana continuano a essere un porto sicuro non solo per i newyorkesi residenti, ma anche per quella residua comunità di europei trasferitasi nella city per ambizione, carriera e passione per Manhattan.
Tra i tanti nomi che costellano il panorama dei ristoranti italiani, dalle pizzerie alle osterie fino ai fine dining, Lucciola non è mai stato uno dei più chiacchierati. Eppure, è senza dubbio quello con la storia più avvincente e incredibile che possiate immaginare.
Michele Casadei Massari e Alberto Ghezzi, amici e soci di una vita, ricevono questo spazio da un cliente anonimo il quale, dopo una cena nel loro Piccolo Café di Amsterdam Avenue, offre ai due ragazzi un immobile ad angolo, al piano strada di un edificio dell’Upper West Side. L’edificio è un condomino che presto sarà affittato in blocco e lo spazio che viene proposto misura cento metri quadri internamente ma quattrocento in esterna. «La cosa curiosa – che ci salverà il c**o durante il lockdown – è che i marciapiedi sono di proprietà, non sono sottoposti alle leggi di New York perché privati appunto. Nonostante l’Upper West Side fosse Far West in quel momento, firmiamo nel 2017 e poi, per via di alcuni lavori straordinari del palazzo e ritardi vari, finiamo per ritardare l’apertura. Facciamo la nostra inaugurazione con un format da trattoria, simile a quello che avevamo nei Piccolo Café, piuttosto nazional popolare ma di qualità e che piace senza troppe menate».
Prima della pandemia, Lucciola lavora per circa un anno. Le cose vanno bene ma potrebbero andare meglio, perché il pubblico fighetto dell’Upper West Side ama la cucina italiana ma non quella ruspante che proponevano i ragazzi e forse era anche alla ricerca di un contesto e di un’atmosfera più sofisticati. Allo stesso modo, Massari e Ghezzi, che avevano cercato di lavorare a un progetto di vita che fosse più incentrato sul downgrading, e quindi su meno ritmo e più qualità, non sembrano ancora aver trovato la giusta combinazione di energie e soddisfazioni.
Il nome Lucciola arriva dalle passioni letterarie e cinematografiche di Massari, in particolare dal film Festa di laurea di Pupi Avati. La scena chiave vede Carlo Delle Piane accendere delle lucine che per il cuoco romagnolo non sono altro che lucciole. Pensando a un progetto che parli di cinema, arte, grande cucina, libertà arriva l’illuminazione: il ristorante sarà «la casa degli umori pasoliniani e la rappresentazione fisica del senso di ospitalità che vedo nel leggere con le mie corde stonate il film di Pupi Avati – dove c’è rappresentato il più grande fallimento e insieme la massima celebrazione della cucina emiliano-romagnola». Il riferimento a Pasolini non è randomico anzi, arriva da una passione profonda verso l’uomo ma soprattutto verso l’intellettuale romano amato da Massari. In un suo testo del 1975 si utilizzano le lucciole, e il momento della loro progressiva scomparsa dalle campagne, come spartiacque temporale tra i diversi momenti ed epoche del fascismo così come descritto da Pasolini.
Il menu dell’apertura di Lucciola era ricco, popolare e con un dizionario quasi sgarbato. Subito dopo è arrivata la pandemia «durante la quale abbiamo lavorato in realtà per sostenere ospedali, sinagoghe, chi non aveva via di scampo, insomma intere comunità. Ricordi il dettaglio del marciapiede che ti dicevo? Ecco durante la pandemia Lucciola non ha mai chiuso perché potevamo sfruttare tutto lo spazio del marciapiede esterno che era di nostra proprietà e abbiamo cucinato senza sosta per tutto il vicinato. In quel momento arriviamo ad avere circa 120 coperti, trasmettiamo in radio mentre prepariamo chili di pasta, cerchiamo di evitare che venga meno il senso di comunità e che la nostra squadra continui a lavorare. Diamo speranza, diamo energia».
Finisce la pandemia e nonostante una carriera in continua ascesa, e un socio sempre fedele al fianco, Casadei Massari è stanco, non completamente felice e con il sottofondo mentale che si porta dietro ormai da una decina d’anni, quando ancora sognava l’America da sotto l’ombrellone in Sardegna. Parola chiave: downgrading. «Vado da Albi e gli dico che voglio togliere tavoli e aggiungere vini. Ancora una volta mi ascolta e mi dà fiducia. Mediamo a 34 coperti (oggi ne abbiamo diciotto, quindi nel tempo abbiamo ulteriormente ridotto) per iniziare a costruire una cantina pazzesca che oggi conta più di 1250 etichette, compresi grandi formati».
Entriamo quindi nella seconda epoca di Lucciola, dove la classica carta viene eliminata in favore di grandissimi produttori, specialmente a livello locale, provando a raccontare il circondario, le persone con cui collaborano da anni e i loro prodotti. Lucciola è un piccolo ristorante, ricercato secondo quello che è lo stile di Michele Casadei Massari, senza investitori, senza esposizioni bancarie, con l’animo indipendente e con un unico obiettivo: creare clienti (lucciolans).
«Lucciola è esperienza, qualità di cibo, tempo neutro nell’Upper West Side, a pochi blocchi da Central Park e in un certo senso ancora un Far West della ristorazione, non certo una destinazione. Questo non è certo un punto di arrivo, è il nostro contemporaneo, dove cerchiamo di rappresentare le voci dei produttori attraverso il mio essere Michele Casadei Massari, cuoco, oste e cuciniere innamorato del proprio lavoro».
Questo articolo è la seconda puntata della storia di Michele Casadei Massari, il cuoco italiano trasferitosi a New York nel 2009 e di cui abbiamo raccontato esordi e aneddoti qui. Courtesy immagini Riccardo Piazza