Il tempo è logorroicoTutti i veli del suo corpo che si dispone a giacere

La diciassettesima puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Sto facendo opera di distrazione, è evidente, vorrei portare chi legge lontano da noi, e nello stesso tempo voglio appartarmi con lei tra le righe. (Con te)»

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Questa storia di fratello e sorella (tredicesima puntata). Non siamo mai stati fratello e sorella (che questa sia la diciassettesima puntata cosa mi significa? Non lo so, forse un ambo. Numeri fatali. All’interno della stessa decina l’ambo è frequente più di quanto si creda. Io me lo gioco, voi fate voi). Non ho mai avuto una sorella, lei non ha mai avuto un fratello. Scherzammo un giorno: e allora diventiamolo. E scherzando scherzando lo diventammo. Per scherzo e anche per una certa praticità.

Ora, uno crede che scherzare sia solo una cosa scherzosa, è anche una cosa pratica. I romanzi sono un continuo scherzare, mi disse, un divertimento piuttosto leggibile, «e potremmo variare sul tema divertimento per ore, ma lasciamo perdere… se diamo spago all’etimologia hai voglia a entrare in labirinti infiniti, i cui percorsi ci portano, tu sai già dove, dove vogliamo, ecco dove ci portano… con l’etimologia l’umanità giustifica tutto, anzi fa tutti i propri comodi interpretativi, e allo stesso tempo fa i suoi viaggi… è una vacanza organizzata, se ci pensi, l’etimologia… tocchiamo i porti dai quali partimmo o, se non noi, partì nel passato qualcuno che raggiunge il futuro nel nostro discorso, il tempo è logorroico, non so se mi spiego, credo di no… sono un continuo scherzare, i romanzi, un continuo prendersi gioco di chi legge ma a favore di chi legge, eseguendo quel gioco per il piacere, il giocoso piacere di chi legge… questo gioco, quasi competizione: che durante la lettura non accada la vita, che il romanzo col funzionale movimento articolato dei suoi meccanismi batta a braccio di ferro la vita, e che scorrano i nostri occhi e non il tempo, che scorrano le parole sia come acqua sia come pesciolini… e il fondale ce lo metti tu, sia che si veda sia che non si veda, sia a ciottoli sia a erbe sia a sabbie sia a secche sia a alberi, a colli, a monti, a orizzonti lontani, mari distesi, sanguinanti tramonti… se tu sapessi quanto è di tua competenza il fondale… o credi che dietro lo scritto ci sia davvero e soltanto la pagina? Credi che io stia giocando? Ecco, credilo. E sul gioco non dico altro che questo: è il bagaglio più adatto da portare appresso nel lungo viaggio nei labirinti dell’etimologia… Basta, o vogliamo annoiarci girando intorno, volteggiando direi, su gioco e serietà, e anche su severità del gioco, e su altri giochetti linguistici? Scherzare, agire con scarsa prudenza anche, come no.»

Quale prudenza avrei se mi mettessi a scrivere? È una domanda. (Sai, domani vorrei, vorrò scrivere, le dissi, anche perché per me, non sapendo né leggere né scrivere, leggere è una cosa noiosa, però sarei curioso di sapere cosa ho scritto, nel caso). Sarei prudente? Non faccio lo spavaldo, non voglio dire che sarei sempre imprudente ma vorrei esserlo sempre. Non per altro (si dice così, quale altro?) ma per evitare le cose già dette, per non sostenere le tesi condivisibili ossia convenienti e di opportunistico buon senso (il buon senso ha per me quel sapore di marcia acidità che mi fa un po’ sputacchiare, e lo vedo e lo sento strisciare nei libri, nei film, nei teatrini, nei giornali, nelle canzoncine, anche in pose anarco- sciantose, se è mai possibile). Sto facendo opera di distrazione, è evidente, vorrei portare chi legge lontano da noi, e nello stesso tempo voglio appartarmi con lei tra le righe. (Con te).

La prima volta che la sentii intima fu la volta del libro, lasciamo perdere quale, il titolo non c’entra, il nome di chi lo scrisse nemmeno. I libri, alle volte sono utili perché sono oggetti pratici, anche tascabili, anche elettronici (cos’è, un sussulto futurista?), maneggevoli, utilizzabili come cifrari per scambi di messaggi segreti, oltre che gradevoli mazzetti di fogli in una ben sistemata composizione, col vantaggio che i libri parlano più dei fiori.

Aveva fatto entrare nel discorso un libro che non c’entrava, dando l’impressione che non fosse lei a spingerlo a forza ma che fosse lei a incoraggiare il timido libro a entrare. Ecco, compresi che leggendo quel libro aveva spesso pensato a me. Non che qualcosa nel libro le avesse fatto pensare a me, no, ma che il pensiero di me l’avesse distolta dal libro che stava leggendo. Le cose che noi non sappiamo, e che crediamo perfino misteriose, sono molto più stupefacenti di quelle che sappiamo e addirittura di quelle che immaginiamo, perfino di quelle che fantastichiamo (sapienza, immaginazione, fantasia e anche mistero sono infatti pallide imitazioni dell’ignoranza).

Avevo anch’io una copia di quel libro e non subito ma dopo qualche giorno lo cercai, lo trovai e con calma iniziai a leggerlo non aspettandomi niente dal libro anche perché subito, dalle prime righe rinunciai a leggere per comprendere e continuai a leggere senza comprendere, perché sulla comprensione si impose il pensiero di lei, proprio sopra, come uno strato dei suoi giacimenti (mi viene da dire così: tutti i veli del suo corpo che si dispone a giacere) e ogni strato si stendeva sulle pagine come un velo dell’ombra di lei alle mie spalle, poi accanto a me. Conosciamo questa attività da mezzano del libro, questa funzione da ruffiano che ti conduce verso la tua distrazione senza che tu capisca nulla di quello che dice e continui però a leggere senza alcuna attenzione però seguendolo per filo e per segno, rigo dopo rigo, e se ti fermi hai l’impressione che il libro abbia letto te.

È così: torpore, una certa pigrizia che mi allontana da tutto, nessuna voglia di avere una qualche sensazione, anzi la voglia di non averne, di perderle tutte come i grani di una collana dal filo, grani che rotolano e non faccio nulla per fermarli, anzi considero piacevole quel rumore scorrevole che porta via con sé la mia stessa attenzione che si sparge, saltella, rotola, se ne va sotto i mobili (l’attenzione sotto i mobili?). Una morbida ebbrezza. Leggevo non trattenendo nulla di quello che leggevo: quelle parole scritte lei me le sussurrava sulla nuca, ecco, e io avvertivo il soffio, il fiato, il sussurro, non le parole ma il lieve vento, sentivo la sua vicinanza.

Potevo dimenticare la mia presenza, ecco, proprio così, mi potevo lasciare andare, nel senso di fare nulla per trattenermi, anzi mi salutai, mi dissi stammi bene. Stavo bene, infatti. Mi sgretolavo e si sgretolava anche lei in sussurri della sua carne, ci stavamo sgretolando insieme, stavamo andando in briciole, la nostra polvere si ammucchiava sotto di noi e si mischiava (siamo o no consustanziali, quindi?).

Insomma, lei parlava di questo libro ma – non l’ho detto? – non eravamo soli, non eravamo così soli come ci pareva d’essere. Ma si vedeva benissimo che eravamo soli, solo noi. Avevamo intorno persone che erano lì per questo (in verità per far tintinnare tazzine e bicchieri): per vedere benissimo quanto e come eravamo soli, quanto avremmo voluto esserlo (e non avremmo potuto permettercelo). Nell’aria un certo disagio, disorientamento, quesiti, perplessità, un uso eccessivo dei primi piani. Era chiaro che, se non c’era mai stato nulla tra noi, presto ci sarebbe stato tutto. I fondali (ecco i fondali di nostra competenza) sia sottostanti sia verticali ebbero un fremito, un sussulto, forse tra un po’ avrebbero cominciato a oscillare.

Qui lei ebbe l’illuminazione, come in bianco e nero Louise Brooks. “Scusate” disse “devo rimediare a una dimenticanza, è il momento che vi presenti mio fratello” che, indicato dalla sua mano aperta, ero io, anche pendente dalla sue labbra.

(17 Continua)

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