Gli ecologi sostengono che il «clima domina su tutto», ossia che il clima rappresenta il primo insieme di condizioni da individuare per spiegare la distribuzione delle specie. Dunque, un primo passo per individuare una Europa ecologica potrebbe essere il cercare una carta bioclimatica e vedere dove ne vengono individuati i confini. La carta più usata per questo esercizio è la carta bioclimatica di Rivas-Martínez, che in realtà non è di grande aiuto: il confine orientale, che è quello più problematico, è segnato da una cesura netta e priva di significato climatico ed ecologico. Anche analizzando i dati bioecologici le cose non sono chiare.
I confini orientali dell’Europa sono incerti. La classificazione di base della biogeografia inserisce il continente europeo in una regione, il Paleartico, assieme a quasi tutta l’Asia (a nord dell’Himalaya e del Karakorum) e al Nord Africa. E biologicamente le foreste boreali, siberiane o finlandesi sono assolutamente simili: gli Urali non rappresentano una barriera netta. In effetti, in tutte le suddivisioni ecologiche e climatiche proposte fin dagli anni Settanta del Novecento, il confine tra Europa e Asia, e anche tra bacino nord e sud del Mediterraneo, è piuttosto incerto. Allo stesso modo, la regione che indichiamo come mediterranea, caratterizzata da clima ed ecologia peculiari, in realtà abbraccia tutto il bacino del Mediterraneo, coste asiatiche e africane comprese (per non citare il fatto che nel mondo ci sono altre quattro aree comparabili a questa macroregione).
Jürgen Schultz, dividendo la Terra in zone ecologiche, rende chiaro che i confini dell’Europa geografica – qualunque scelta si adotti – si sovrappongono sulle seguenti ecozone: boreale, medie-latitudini temperata, medie-latitudini arida, subtropicale con piogge invernali. In altre parole, ancora una volta i confini orientali e meridionali dell’Europa sono impossibili da tracciare nettamente seguendo un criterio ecologico. Un altro lavoro importante, che parte proprio dalle basi biogeografiche descritte or ora, è quello del 2002 di David Olson ed Eric Dinerstein, in cui si individuano poco più di duecento aree prioritarie per la conservazione, classificandole su basi climatiche ed ecologiche. Nell’Europa geografica ne ricadono diverse, di cui alcune si trovano esattamente nella zona di faglia, di quei confusi confini dell’Europa meridionale e orientale.
Ad esempio, le cosiddette «foreste miste montane» dell’Europa mediterranea si estendono in Europa, ma anche – in parte – in Africa e in Asia, le foreste temperate del Caucaso, dell’Anatolia, dell’Hyrcanian (dunque situate sia in Europa che in Asia), le formazioni forestali mediterranee (ancora una volta a cavallo di tre continenti) e la taiga e la tundra dei monti Urali, ecozona che copre entrambi i versanti degli Urali, quindi a cavallo tra Europa e Asia. Un ultimo aspetto sul quale vale la pena farsi qualche domanda riguarda quali potrebbero essere i confini di una Europa umana e culturale. Sugli uomini ha ben risposto e argomentato Guido Barbujani: i veri europei non ci sono più, spazzati via dopo l’arrivo di Homo sapiens. Erano i Neanderthal, la cui civiltà ha lasciato tracce in buona parte del nostro continente (e in una porzione dell’Asia).
Se osserviamo le famiglie linguistiche, il grosso dei popoli europei appartiene alla famiglia delle lingue cosiddette indoeuropee. Una famiglia che ci lega inevitabilmente ai popoli dell’Armenia, del subcontinente indiano, dell’Iran e di un’ampia regione che da quelle terre giunge verso il Mediterraneo e il mar Nero. Non dovrebbe sorprendere constatare che ci sono eccezioni: baschi, ungheresi, finlandesi ed estoni hanno storie e origini completamente differenti e le loro lingue non rientrano tra quelle indoeuropee. Allo stesso modo il turco, le lingue del Caucaso (ma questo non vale per l’armeno che invece è indoeuropeo).
Alleggerendo un poco le cose, prendiamo un indicatore indiretto della cultura dei popoli, come potrebbe essere la cucina. Be’, anche qui le cose sono complicate: il Mediterraneo, le cui coste furono luoghi di continui incontri e di incessanti mescolanze di usi, costumi, culture, e caffè turchi/greci/serbi, nelle loro impercettibili sfumature, ci ricordano che quest’area (ma il ragionamento è estendibile a tutta l’Europa) è, da sempre, un incrocio e una rielaborazione di popoli, culture e tradizioni (e il caffè, che pure oggi è una colonna portante della civiltà mediterranea, viene dall’Etiopia, è arrivato a noi grazie ai popoli arabi e oggi è diffuso in tutto il mondo). Provate a separare nettamente una cena ricca di specialità greche da una libanese o armena, o una andalusa da una marocchina. E il cous cous di Trapani dove lo potremmo incasellare? E il vino, a chi appartiene?
Insomma, nulla è indiscutibilmente netto. Anzi: quanto sarebbero più tristi le cene e i convivi in cui non si discetti su quale sia la vera ricetta per un dolcetto al miele o il modo corretto di fare un gazpacho o una zuppa di pesce! Per parlare di confini incerti, basterebbe osservare il lato mediterraneo, che forma una regione (climatica, ecologica e culturale) i cui limiti sono difficili da tracciare con certezza. Così come avviene, in scala più piccola, ad esempio nel mar Adriatico, punto di incontro dei popoli latini, slavi, greci e bizantini. Immaginando di spostarsi tra le rovine di Leptis Magna (in Libia), i castelli veneziani di Cipro (come quello di Kyrenia) e i ruderi vichinghi di L’Anse aux Meadows (in Canada), l’insieme delle ricostruzioni riporta in Europa.
E la stessa sensazione la si può provare in molti altri insediamenti in giro per il mondo. Questa espansione dell’Europa fuori dall’Europa non è stata indolore: quando i popoli europei si sono espansi, hanno lasciato tracce e segni a volte buoni e positivi, altre volte veramente orribili. E per quanta fatica costi è necessario saper fare i conti con il proprio passato, per poter costruire prospettive differenti. […]
Nel 2004, quando l’Unione europea ha compiuto il grande allargamento a est, è stato detto che sarebbero entrati in Europa «dieci paesi e undici popoli», a testimonianza della difficoltà di incasellare entro il semplice schema nazionale la ricchezza del continente. E in effetti anche i confini nazionali non sono indice di separazioni nette e univoche. Le regioni in cui convivono – adesso quasi sempre pacificamente – popoli ed etnie differenti non sono poche. Giusto per citare qualche esempio, come non pensare all’Istria, splendido mosaico di elementi italiani e slavi continuamente intrecciati oppure alla Transilvania, dove in pochi chilometri si alternano villaggi ungheresi, sassoni, latini e rom?
Un intellettuale europeo, Bronisław Geremek, ha usato una bella espressione: «L’Europa è un confine aperto». In altre parole, potremmo parlare di confini sfumati. Spostandosi da ovest verso est, e da nord verso sud, abbiamo confini sempre meno netti. Possiamo prendere in prestito dalla logica e dall’insiemistica il termine fuzzy (letteralmente, «sfocato»; la logica fuzzy è un sistema che si basa su funzioni intermedie di appartenenza tra uno, quando un oggetto appartiene interamente a un dato sistema, e zero, quando un oggetto non appartiene per nulla a un dato sistema; è un meccanismo logico molto utile per la descrizione di realtà complesse non facilmente riducibili a una logica binaria). Confini fuzzy ci permettono di riconoscere un’Europa in luoghi e contesti differenti e diversi a seconda delle discipline.