È destinata a far discutere la vicenda di Sagiv Yehezkel, il calciatore israeliano arrestato domenica 14 gennaio in Turchia per via di una esultanza dopo un gol in una partita della Süper Lig, il massimo campionato locale. Di mezzo c’è ovviamente la guerra in Medio Oriente e la posizione politica del governo turco, notoriamente vicino alla Palestina. Dopo aver segnato, nel pomeriggio, il gol del pareggio del suo Antalyaspor contro il Trabzonspor, Yehezkel aveva celebrato mostrando alle telecamere la fasciatura della sua mano sinistra, su cui aveva scritto «100 giorni dal 7 ottobre», ricordando la data degli attacchi di Hamas in Israele e il sequestro di diverse persone ancora in ostaggio.
Se in altri contesti il suo gesto sarebbe potuto sembrare abbastanza innocuo, così non è stato in Turchia. Poco dopo la fine dell’incontro, l’Antalyaspor ha infatti diffuso un comunicato in cui annunciava l’estromissione dell’attaccante dalla rosa della squadra. Motivi espressamente politici, che nelle stesse dichiarazioni del club chiariscono con quanta gravità sia stato percepito il suo gesto nel Paese anatolico: Yehezkel è stato infatti accusato di aver «agito contro i valori nazionali». E a conferma della serietà dell’accusa, il giocatore è stato successivamente arrestato dalle autorità turche, e adesso subirà un processo per «incitamento all’odio e all’ostilità», secondo quanto detto dal ministro della Giustizia Yilmaz Tunç.
La crisi diplomatica tra Turchia e Israele
Non si tratta del primo caso di calciatore professionista che subisce ripercussioni per essersi espresso sul conflitto, ma Yehezkel è il primo israeliano a venire colpito da una situazione di questo tipo. In precedenza, il marocchino del Bayern Monaco Noussair Mazraoui era stato temporaneamente sospeso dal suo club, e poi reintegrato dopo aver chiarito la sua posizione a sostegno della pace. L’egiziano Anwar El Ghazi era invece stato licenziato dal Mainz, mentre l’algerino Youcef Atal del Nizza è addirittura finito sotto processo in Francia per aver condiviso sui social un video con contenuti antisemiti.
La differenza tra questi episodi e il caso di Yehezkel è che quest’ultimo potrebbe avere grosse ripercussioni diplomatiche sui già complicati rapporti tra Turchia e Israele. Secondo quanto scritto da Haaretz, il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz si è subito attivato per ottenere il rilascio dell’attaccante, mentre il suo omologo della Difesa, Yoav Gallant, ne ha definito “oltraggioso” l’arresto, accusando esplicitamente la Turchia di essere il braccio destro di Hamas.
Questo è solo l’ennesimo episodio di scontro tra i due paesi dai fatti del 7 ottobre, che hanno complicato un processo che in precedenza aveva visto migliorare le relazioni commerciali e diplomatiche tra Tel Aviv e Ankara. Tre mesi fa, Erdoğan aveva accusato pubblicamente Israele di crimini di guerra, e per tutta risposta lo stato ebraico aveva deciso di richiamare il proprio corpo diplomatico dalla Turchia. Da allora, la situazione non è certo migliorata. Anzi, poche settimane dopo il Presidente turco aveva ribadito il concetto: «Netanyahu non è più qualcuno con cui possiamo parlare», aveva detto. Al-Jazeera ha scritto che le relazioni tra i due paesi oggi sono congelate, anche se i fatti recenti rischiano di riscaldarle fin troppo.
L’uso sempre più politico del calcio in Turchia
Non è il primo caso diplomatico che coinvolge la Turchia e il suo appoggio alla Palestina attraverso la lente del calcio. A fine dicembre si è verificato lo scontro con l’Arabia Saudita che ha portato alla clamorosa cancellazione della Supercoppa di Turchia, prevista a Riad: i giocatori di Galatasaray e Fenerbahçe, appoggiati dalla propria Federcalcio, intendevano scendere in campo con uno striscione con su scritto “Pace a casa, pace nel mondo”. Un celebre motto di Mustafa Kemal Atatürk, che era però anche un chiaro riferimento al cessate il fuoco a Gaza. I sauditi si sono invece fermamente opposti all’iniziativa, difendendo la propria discussa neutralità sulla guerra in Medio Oriente, che serve innanzitutto a tutelare i nuovi legami commerciali con Tel Aviv.
Nel frattempo, Sagiv Yehezkel ha diffuso un comunicato in cui nega le accuse rivoltegli dal governo turco: «Non sono una persona che supporta la guerra. Voglio che questo periodo di 100 giorni termini ora. Voglio che la guerra finisca. Ecco perché ho fatto il mio tributo». Anche se meno plateale, perché avvenuto solo sui social e non in diretta televisiva, lo stesso gesto è stato ripetuto da un altro calciatore israeliano impegnato nel campionato turco, Eden Kartsev, che ha ripreso un post della Zionist Federation of Australia in cui si chiedeva la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas. La sua storia pubblicata su Instagram è stata duramente criticata sui social network dai tifosi turchi, e ha portato infine il suo club, il Başakşehir, a sospendere il giocatore e a metterlo sotto indagine interna per violazione delle regole disciplinari.
Come suggerito dal giornalista sportivo israeliano Uri Levy, sembra che la Turchia stia usando il calcio come strumento di soft power contro Israele, prendendone di mira i calciatori. In questo modo, il governo di Erdoğan – che gode di una larghissima influenza sulle dirigenze dei club – si starebbe anche imponendo con sempre maggiore evidenza come il principale alleato della Palestina, ottenendo probabilmente un ritorno d’immagine positivo sia nel mondo mediorientale che anche oltre questi confini.