Avventurieri, corsari e calcolatoriL’impatto della surreale politica belga sulle future nomine europee

Le dimissioni tattiche dell’ambizioso Charles Michel complicano la successione alla presidenza del Consiglio europeo mentre il commissario uscente alla Giustizia Didier Reynders cerca di riciclarsi in un nuovo ruolo, purché sia a Strasburgo

LaPresse

«C’erano un presidente, un commissario, un giudice e un governatore…». Basta poco per capire che è tornata la pazza politica belga. La terra dei surrealisti quest’anno va alle urne federali, oltre che europee e locali: all’orizzonte ci sono lo spettro della tenaglia delle destre, favoritissime nelle ricche Fiandre, e un ritorno dell’ingovernabilità che è di casa nell’affollata scena nazionale, fatta di partiti piccoli che seguono la divisione linguistica tra nederlandofoni e francofoni. Insomma, di per sé già un cocktail esplosivo, in un Paese che in cui i governi ad interim sono spesso la norma, e che nei mesi a venire rischia di replicare la complessa formazione di un esecutivo nella pienezza dei poteri vista tra 2019 e 2020, cui ha fatto seguito la relativa stabilità garantita dall’attuale premier Alexander de Croo. A infiammare la partita a tutto campo c’è un’altra variabile, cioè l’incrocio con la competizione Ue. Per di più in un momento in cui lo Stato che ospita le istituzioni Ue ha appena rilevato dalla Spagna, dal 1° gennaio, la presidenza di turno semestrale del Consiglio dell’Ue. 

Il gran sommovimento belga di inizio anno racconta così di vertici europei che indossano senza molto preavviso i panni dei candidati nazionali (Charles Michel), esponenti di spicco che vogliono riciclarsi senza grande soluzione di continuità tra un’organizzazione continentale e l’altra (Didier Reynders), giudici-inquisitori di carriera che non aspettano neppure la fine della prima settimana da pensionati per tuffarsi in politica (Michel Claise), e un presidente di regione desideroso di intraprendere nuovi sentieri (Jan Jambon). 

A dare il via alle danze è stato Charles Michel, con l’annuncio a sorpresa che lascerà, con oltre quattro mesi di anticipo sulla fine naturale del mandato prevista il 30 novembre, gli uffici ai piani alti dell’Europa Building di Bruxelles per candidarsi come capolista dei liberali francofoni del Mouvement Réformateur (Mr) alle elezioni Ue del 6-9 giugno prossimo. L’ex premier del Belgio e figlio d’arte (il padre Louis è stato ministro, eurodeputato e commissario Ue) ha appena quarantotto anni e non è intenzionato a lasciare che la manciata di mesi che lo separa, sulla carta, dal passaggio di consegne con il successore gli faccia perdere il treno della decima legislatura Ue, nella quale potrà fare valere il profilo di peso costruito in questi quasi cinque anni, e ambire così, ad esempio, alla presidenza dell’Europarlamento come nome più in vista tra i banchi di Renew Europe. 

Insomma, per evitare di rimanere fuori dai giochi, farà le valigie entro il 16 luglio, giorno dell’insediamento formale dell’Eurocamera a Strasburgo. La conseguenza immediata? Dall’entourage di Michel assicurano che il belga potrà fare campagna elettorale nella tarda primavera e che c’è sufficiente tempo dopo il responso delle urne – tra le tre e le quattro settimane – per trovare una figura di spessore pronta al passaggio anticipato di testimone, che sia un esponente politico o un tecnico di chiarissimo prestigio come Mario Draghi (ipotesi che entusiasma fino a un certo punto i partiti Ue, gelosi del metodo Cencelli con cui si spartiscono le poltrone). 

È l’unico modo (al di là di una modifica a maggioranza del regolamento di procedura interna) per evitare che sia il premier ungherese Viktor Orbán, dal 1° luglio presidente di turno del Consiglio, ad assumere pro tempore su di sé anche le funzioni di arbitro super partes del summit dei leader. 

Uno scenario da incubo, se non un vero e proprio cortocircuito istituzionale, oltretutto in un momento di transizione per i vertici Ue: la sola eventualità è adesso ascritta tra le principali responsabilità di Michel, sempre troppo occupato – raccontano i detrattori – a immaginare il (suo) futuro che a gestire il presente. La conseguenza mediata? La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, con cui i rapporti non sono mai stati idilliaci – per usare un eufemismo – si trova costretta a dover sciogliere presto la riserva, mantenuta finora con riserbo, quanto alla volontà di correre per un bis a palazzo Berlaymont. 

Il Mouvement Réformateur, che ha appena celebrato il suo congresso a Louvain-la-Neuve, ha però un’altra pedina di peso che non può congedare prima del tempo: il commissario uscente alla Giustizia Didier Reynders, un palmarès da pluri-ministro, anche con lo stesso Michel, dalle Finanze a Esteri e Difesa. Alla convention Reynders non s’è fatto vedere, ma ha mandato un videomessaggio: una scelta che si spiegherebbe con la decisione del partito di ipotecare un seggio all’Eurocamera per il presidente del Consiglio europeo in carica, mossa che lo esclude automaticamente dai giochi per il rinnovo dell’Eurocamera (secondo i sondaggi, l’Mr dovrebbe aggiudicarsi intorno ai due-tre eletti). 

Sfumata l’ipotesi tête de liste, il commissario punterebbe allora su un piano B di tutto rispetto, che sempre a Strasburgo fa capolinea: la corsa come segretario generale del Consiglio d’Europa, la principale organizzazione continentale (ma extra-Ue) in materia di diritti umani. Uno sbocco che era già sfumato nel 2019, quando il plenum dell’Assemblea generale degli Stati membri (allora 47, oggi 46 dopo la fuoriuscita della Russia) gli preferì, sessanta per cento contro quaranta per cento la croata Marija Pejčinović-Burić. Il pedigree Ue maturato nel frattempo potrebbe, stavolta, giocare però in favore di Reynders. 

Nelle stesse ore, un’altra vecchia conoscenza degli affari belgi s’è messa in mostra: Michel Claise, il giudice istruttore che ha fatto detonare il Qatargate, lo scandalo di corruzione e traffico di influenze illecite, con il presunto coinvolgimento di vari italiani, che tra 2022 e 2023 ha avuto come epicentro il Parlamento europeo, generando un clima da caccia alle streghe che ha minacciato di scuotere l’intero establishment politico Ue, salvo sgonfiarsi a tempo record. Qualcuno, anzi, lo chiama ormai apertamente Belgiumgate, a evidenziare il ruolo avuta da una pratica giudiziaria nazionale non certo garantista. 

Claise, sessantotto anni, in pensione da qualche giorno dopo oltre un ventennio nella macchina della giustizia belga e prim’ancora nell’avvocatura (e una carriera in parallelo come scrittore di romanzi noir e gialli), si presenterà agli elettori alle legislative di giugno che si terranno in concomitanza con le europee. Lo farà nelle liste di Défi, formazione centrista abbastanza radicata nella regione di Bruxelles, che nel suo programma indica la creazione di Procura speciale federale per i crimini finanziari, uno dei suoi cavalli di battaglia, ha detto Claise nella sua prima intervista al quotidiano Le Soir.

E poiché tutte le strade portano in Belgio, sullo sfondo prende, intanto, forma un divorzio politico che potrebbe consumarsi presto, quello tra i nazionalisti fiamminghi dell’N-va (al governo nelle Fiandre) e la famiglia Ue dei Conservatori e riformisti (Ecr) presieduta da Giorgia Meloni, di cui a oggi sono parte. «Non ci sentiamo più a casa nostra», ha detto Jambon a un evento con la stampa internazionale, ricordando come all’origine della decisione dell’N-va di unirsi all’Ecr ci fosse la presenza (o meglio, proprio la regia) di quel gruppo da parte dei Tories britannici. Adesso, invece, la destra fiamminga che sogna di diluire il Belgio in confederazione vuole tenersi le mani libere dopo il voto europeo di giugno. Tra avventurieri, corsari e calcolatori, la politica belga è come le salse delle sue frites patrimonio Unesco: ce n’è una per tutti i gusti. 

 

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