La crociata del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini contro la Città 30, e più in generale contro la mobilità sostenibile in città, è culminata con una direttiva che ha il solo scopo di intimidire le amministrazioni che vorranno seguire l’esempio di Bologna. Da parte dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) non è arrivata un’opposizione particolarmente decisa, quindi il testo è stato firmato e tra i sindaci – non solo di centrosinistra – si sta diffondendo una comprensibile preoccupazione.
La norma introduce infatti numerosi limiti – soprattutto burocratici – che potrebbero disincentivare i Comuni a incrementare il numero di Zone 30: saranno consentite, ma non potranno coinvolgere la maggioranza delle strade urbane e «ogni deroga per ogni strada dovrà essere puntualmente motivata». Questo significa che, in teoria, sarà sempre più difficile raggiungere i numeri sufficienti per soddisfare i criteri (non scritti sulla pietra) di una Città 30. Il piano di Bologna, per esempio, ha introdotto i trenta chilometri orari nel settanta per cento delle strade del centro abitato.
Effetto boomerang
Un passaggio della direttiva del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit), però, potrebbe paradossalmente fare un favore ai Comuni – come Milano – che puntano a realizzare una Città 30 “di fatto ma non di nome”, ampliando il numero di Zone 30 senza annunciare un provvedimento ad hoc. Quest’ultima è una via meno ambiziosa e incisiva dal punto di vista comunicativo, ma potrebbe – almeno nel lungo periodo – avere lo stesso effetto di una misura esplicitamente dedicata alla Città 30. Con Salvini sul piede di guerra, infatti, molte amministrazioni preferiscono procedere con prudenza e gradualità.
L’incoraggiante paradosso della direttiva riguarda l’elenco delle situazioni in cui, stando alle indicazioni del ministero, un Comune (motivando ogni deroga) può abbassare il limite dei cinquanta chilometri orari: assenza di marciapiedi o movimento pedonale intenso; anormali restringimenti delle sezioni stradali; pendenze elevate; andamenti planimetrici tortuosi tipici dei centri storici; «frequenza di ingressi e uscite carrabili» da fabbriche, stabilimenti, asili, scuole, parchi di gioco, ospedali, centri sportivi; pavimentazioni sdrucciolevoli o curve pericolose.
In tutte le situazioni nominate in precedenza, quindi, può potenzialmente esistere una strada con il limite dei trenta all’ora, in linea con la nuova direttiva di Salvini. Oltretutto, le caratteristiche elencate si riferiscono a una circolare di quarantacinque anni fa, più precisamente del 12 giugno 1979. Qual è, allora, il luogo che rispecchia fedelmente le peculiarità messe in fila dalla norma del governo? È la domanda che si sono posti gli architetti e urbanisti Diego Terna e Chiara Quinzii (Quinzii Terna Architecture) in un articolo sugli Stati Generali. La risposta sembra chiara, ma non è così scontata: quel luogo è una qualsiasi città italiana, dove i servizi citati dal testo del Mit – soprattutto le scuole e gli asili – sono distribuiti in maniera omogenea.
Al netto dei cavilli burocratici e del linguaggio torbido, la direttiva di Salvini avrebbe inconsapevolmente agevolato il processo per la genesi di una Città 30 “di fatto ma non di nome”. Un boomerang che spiegherebbe la confusione con cui il governo centrale sta affrontando i temi della mobilità urbana e della sicurezza stradale.
«La direttiva punta a rendere più difficile il processo di definizione di una Città 30. A leggerla bene, però, quasi la favorirebbe, perché descrive delle situazioni che rispecchiano esattamente la città di oggi», racconta Diego Terna a Linkiesta. «La norma chiede di motivare la riduzione del limite di velocità in ogni strada, ma tra le motivazioni ci sono delle situazioni ormai molto presenti nel tessuto urbano», aggiunge Chiara Quinzii, che fa parte della task force per la sicurezza stradale e la mobilità attiva del Comune di Milano.
Nessuno, al momento, sa come monitorare, interpretare e applicare la direttiva, impostata volutamente in modo poco chiaro: questi temi saranno al centro di un imminente tavolo che il ministero di Salvini ha promesso all’Anci. La norma potrebbe esporre le amministrazioni a un maggior rischio di inciampare in un ricorso, ma dall’altra parte potrebbe dare ai Comuni più margine di autonomia.
Le città cambiano partendo dalle scuole
L’analisi di Quinzii e Terna, che nei prossimi mesi pubblicheranno un nuovo libro sullo spazio pubblico milanese (“Milan Unlocked. Lo spazio pubblico dopo la pandemia”, edito da LetteraVentidue proprio come “Milan Public Space. Un atlante in divenire dello spazio di tutti”), si è concentrata sul numero di scuole pubbliche e private, asili e nidi a Milano: se l’amministrazione Sala istituisse il limite dei trenta all’ora nelle strade in prossimità di questi edifici, il capoluogo lombardo diventerebbe nei fatti una Città 30.
«Qualche anno fa, per Cittadini per l’Aria, avevamo mappato tutte le scuole in occasione di una campagna contro il biossido di azoto. Partendo da lì, abbiamo costruito un raggio di prossimità di cinque minuti a piedi: così facendo, praticamente tutta la città diventerebbe a trenta all’ora. Nella nostra mappatura mostriamo che già le elementari coprirebbero tutta Milano», dice Diego Terna. L’intenzione del capoluogo lombardo, stando alle parole dell’assessora alla Mobilità Arianna Censi, è proprio quella di «partire dalle scuole come hub di trasformazione del contesto circostante» per seguire le indicazioni del consiglio comunale sulla Città 30. Considerando che in ogni quartiere c’è almeno una scuola, il processo verso una riduzione omogenea del limite di velocità – si augura l’assessora – «avverrà in maniera armonica e condivisa».
Secondo Terna, però, all’amministrazione meneghina mancano spesso «una visione generale e una strategia» per ripensare completamente lo spazio pubblico urbano. Una Città 30 «si può chiamare anche con altri nomi, ad esempio città lenta, o città delle persone, ma deve esserci un intento politico forte». La mappatura condotta dai due esperti sulle scuole milanesi, infatti, è importante perché permette di andare oltre la definizione di Città 30: la riduzione del limite di velocità è solo l’inizio, perché può dare l’impulso a una serie di interventi urbanistici (pedonalizzazioni, verde urbano, piste e corsie ciclabili, chicane, sopraelevazioni, pavimentazioni diverse) e misure per disincentivare l’uso dell’automobile privata. È un discorso legato al benessere di tutte le persone, alla sicurezza degli utenti vulnerabili e alla riduzione dell’inquinamento.
In questo processo, le scuole possono essere il punto di partenza per cambiare volto a ciascun quartiere delle nostre città, che – per fortuna – non sono divise per funzioni e hanno una buona distribuzione dei servizi di istruzione: «Questa presenza così omogenea fa anche capire la caratteristica fondamentale delle città italiane, che è la loro qualità, il loro non essere zonizzate. Le scuole sono dappertutto: lungo le strade piccole o i grandi viali, nei quartieri residenziali o super misti. Questa omogeneità ci permette di pensarle come centri di irradiazione di un nuovo tipo di città», dice Diego Terna.
«Sistemare dieci scuole in un anno, però, è una goccia nell’oceano», specifica Chiara Quinzii, facendo riferimento al numero elevato di istituti presenti sul territorio milanese. «A differenza di Milano – continua l’esperta – altre città europee come Parigi, Barcellona e Bruxelles hanno dato seguito alle trasformazioni del periodo pandemico. Quelle città, se parliamo di scuole, avevano pensato a pedonalizzazioni temporanee per permettere l’ingresso e l’uscita in sicurezza dei bambini durante il Covid. Le loro strade, però, si sono evolute in maniera strutturata: sono state piantumate, rese dei piccoli giardini urbani in cui i bambini possono respirare e giocare».
Secondo Quinzii bisogna andare oltre il concetto di piazze tattiche e strade scolastiche, perché il «sagrato della scuola» non ha senso se non riesci ad arrivarci in sicurezza: «Carlos Moreno (l’urbanista che ha inventato la nozione di Città dei 15 minuti, ndr) diceva che le scuole sono le capitali del quartiere, ma quel quartiere deve essere abitabile, piacevole e sicuro», spiega.
Le strade intorno alle scuole, quindi, devono essere strutturate per far sì che l’automobilista o il motociclista non possa andare troppo velocemente. Qualche esempio? Non devono esserci rettilinei lunghi un chilometro ma chicane e altri elementi di calmierazione della velocità, senza dimenticare il verde urbano, le panchine e altre caratteristiche in grado di migliorare la fruibilità e la vivibilità dello spazio pubblico. I cartelli stradali dei trenta all’ora, insomma, non bastano.
Secondo il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, «i limiti di velocità eccessivamente ridotti potrebbero causare intralcio alla circolazione e risultare pregiudizievoli sotto il profilo ambientale». Superare questa visione miope, carica di pregiudizi e priva di basi scientifiche, è fondamentale per realizzare la “città delle persone”, che sia o meno una Città 30 di nome e di fatto. Amsterdam, per esempio, è diventata ufficialmente a trenta all’ora pochi mesi fa, ma è ormai da decenni un punto di riferimento per la mobilità sostenibile.
A maggior ragione dopo la firma della “direttiva boomerang” del Mit, le amministrazioni comunali devono annunciare i loro obiettivi con chiarezza, indipendentemente dalla gradualità e dalla prudenza con cui intendono procedere: «L’importante è agire, anche perché la norma di Salvini ha portato il tema della mobilità urbana sulle prime pagine dei giornali. Oggi un cittadino può farsi un’opinione. È un tema che deve entrare nel dibattito e che va allargato. In Italia, per dire, i morti sulle strade sono tanti, più dei morti sul lavoro. E una parte dei morti sul lavoro comprende persone morte mentre andavano al lavoro», conclude Chiara Quinzii.