Prima di lunedì 9 gennaio 2023, quando è stato approvato l’Ordine del giorno del consigliere Marco Mazzei su Milano “Città 30” dal 2024, il limite dei trenta chilometri orari nelle aree urbane occupava una posizione marginale all’interno dei dibattiti sulla mobilità italiana. Sarà perché il capoluogo lombardo, nel bene e nel male, fa spesso tendenza. Sarà perché il problema della sicurezza stradale, menzionato anche da Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, è più attuale che mai. Ma da quel momento in poi qualcosa è cambiato, e l’attenzione attorno alla questione ha assunto dimensioni inedite a livello nazionale.
Dopo il “caso Milano”, dove alcune arterie a grande scorrimento manterranno comunque il limite dei cinquanta chilometri orari, anche altre città hanno iniziato a cambiare approccio, allineandosi ai tempi che cambiano. Eugenio Patanè, assessore capitolino alla Mobilità, ha detto che anche a Roma verrà esteso il limite dei trenta chilometri orari su tutto il territorio urbano. Lo stesso vale per Lecce. E, prima ancora di Milano, città come Bologna (“Città 30” da giugno 2023) e Parma (dal 2024) avevano già approvato misure analoghe.
Poi c’è l’esempio Olbia, l’unico centro urbano italiano dove questo limite è già in vigore. Nel Comune sardo, dati alla mano, sono già evidenti tutti gli effetti positivi di un provvedimento del genere: dalla riduzione degli incidenti alla migliore fluidità del traffico, passando per i benefici sull’inquinamento acustico e la qualità della vita. Risultati simili sono stati riscontrati anche in quelle città europee che possono essere definite le “pioniere del traffico a velocità moderata”.
«Da quando Lille è una “Città 30” (2019, ndr), i ciclisti sono aumentati del cinquanta per cento. A Bilbao, da quando nel settembre 2020 hanno implementato il limite dei trenta all’ora, gli ossidi di azoto e il PM10 sono calati nell’ordine del dieci per cento. In più, gli spostamenti in bicicletta sono cresciuti di sei volte: prima erano circa trecentomila, ora quasi due milioni. Non dimentichiamo che il traffico si è ridotto lievemente e la città risulta più silenziosa», racconta a Linkiesta Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna CleanCities. Da non dimenticare i numeri di Bruxelles: gli incidenti sono calati del venti per cento e i feriti gravi sulle strade del venticinque per cento.
Le principali preoccupazioni dei cittadini (milanesi e non)
Se i benefici sono così evidenti, perché all’interno del dibattito c’è chi, come il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, pubblica commenti del tipo: «Ricordo al sindaco e al Pd che a Milano la gente vorrebbe anche lavorare»? I motivi sono senza dubbio culturali (siamo il Paese più motorizzato d’Europa dopo il Lussemburgo e l’auto è profondamente – e morbosamente – radicata nella nostra tradizione), politici e ideologici, ma una misura del genere è per certi versi rivoluzionaria e va comunicata bene a una cittadinanza che ha (quasi) solo una preoccupazione: l’aumento del traffico e dei tempi di percorrenza casa-ufficio.
Partendo dal presupposto che, a Milano, oggi la velocità media è di circa quindici chilometri orari, bisogna specificare che lo stile di guida è più impattante della velocità: «Quando guidi oltre i limiti urbani, hai la sensazione di procedere velocemente. Poi, però, devi rallentare per la coda, rimani bloccato nel traffico, ti fermi agli attraversamenti, freni prima delle rotonde. E alla fine la velocità media risulta molto bassa. Il risultato? Con lo “stop and go” si consuma molta più benzina e si inquina molto di più», sottolinea Magliulo.
Accelerare, frenare, fermarsi, ripartire. Lo “stop and go” provoca più stress a livello dei freni e degli pneumatici, e di conseguenza una produzione maggiore di particolato atmosferico: «Questo viene emesso non tanto dal tubo di scappamento, ma dagli pneumatici e dai freni. Il consumo in accelerazione di un’automobile è molto superiore al consumo in velocità di crociera. Gli studi hanno spesso delle assumption non realistiche: fanno valutazioni in contesti ideali, in cui le auto viaggiano senza ostacoli e a velocità di crociera costanti. Ovviamente non è la realtà delle nostre città», sostiene l’esperto.
Come sottolinea Magliulo, è vero che «un’auto a velocità costante di trenta chilometri orari inquina circa il venticinque-trenta per cento in più di un’auto che viaggia a settanta-ottanta chilometri orari». Tuttavia, «il limite dei trenta chilometri orari fluidifica il traffico e compensa il problema ingegneristico delle aumentate emissioni». Inoltre, ridurre la velocità significa anche far rimanere le polveri sottili al livello della strada. Più le auto corrono, più queste sostanze si risollevano in aria: «Entrano negli edifici e arrivano a un’altezza tale per cui il vento le sposterà ancora più lontano».
I tempi di percorrenza restano identici
In nessuna “Città 30” è stato evidenziato un aumento dei tempi di percorrenza da un punto A a un punto B. Secondo un report dell’Ufficio prevenzione infortuni (Upi), con l’abbassamento del limite di velocità urbana (da cinquanta a trenta chilometri orari) i tempi di viaggio possono ridursi di due secondi ogni cento metri. E nelle ore di punta questo valore può potenzialmente scendere fino a quota zero. La riduzione della velocità, sottolinea l’Upi, difficilmente ha effetti negativi sul traffico cittadino, che dipende da altri fattori quali la gestione e il numero di incroci, il coordinamento dei semafori, il numero di passaggi pedonali e di fermate di autobus o tram.
Indirettamente, il limite dei trenta chilometri orari può fluidificare il traffico (anche) grazie alla sua capacità di rendere più appetibili altre forme di mobilità: mezzi pubblici, biciclette, monopattini elettrici, motorini in-sharing. È proprio questo l’effetto più prezioso della misura approvata settimana scorsa dal consiglio comunale di Milano. Gli esempi sopracitati (Lille e Bilbao) confermano che nelle “Città 30” la mobilità attiva è diffusa in modo più capillare.
«Le “Zone 30” non disincentivano l’uso delle automobili perché i tempi di percorrenza rimangono pressoché gli stessi. È più corretto dire che incentivano la mobilità attiva e l’uso dei mezzi pubblici. Nelle “Città 30” c’è stato un boom di ciclisti grazie alla diffusione di un nuovo senso di sicurezza: si pedala in un contesto in cui le auto sono costrette a condividere lo spazio in maniera più equa», dice il responsabile italiano di CleanCities. Laddove il limite dei trenta chilometri orari viene realmente rispettato, non c’è neanche bisogno di ricorrere a una eccessiva infrastrutturalizzazione. Ad esempio, non è per forza necessaria una ciclabile in sede protetta: le bici sono indirettamente “protette” dalla bassa velocità dei veicoli a motore.
La riduzione della velocità è solo il primo passo
“Città 30” non vuol dire solo ridurre il limite da cinquanta a trenta, ma adattare l’intero contesto urbano a una diversa concezione di velocità. Ecco perché una misura di questo tipo deve essere accompagnata da due tipi di interventi. I primi sono quelli che disincentivano davvero l’uso del mezzo inquinante privato: le Ztl, le zone a basse emissioni, le politiche restrittive sui parcheggi. I secondi, invece, sono di tipo urbanistico.
«Le “Città 30” sono uno strumento che va utilizzato nel modo giusto: vanno fatte bene», spiega Claudio Magliulo. Ma cosa significa, nel concreto, fatte bene? «Il modello ideale è quello delle living street olandesi, ossia quelle stradine strette con alberi, panchine, chicane, sopraelevazioni e pavimentazioni diverse. In quelle zone non c’è bisogno di distinguere i flussi stradali, e le auto non riescono mai a superare i dieci chilometri orari. E quasi nessuno le usa».
Mettere un cartello che segnala i trenta chilometri orari non basta, soprattutto se parliamo di carreggiate in cui – oggi – gli automobilisti sfrecciano a settanta, ottanta o novanta all’ora. Assieme all’imposizione del nuovo limite di velocità, come anticipato poco fa, servono nuove soluzioni urbanistiche: marciapiedi più larghi, strade più strette e attraversamenti pedonali. E poi si apre la parentesi degli autovelox.
«Ovviamente non puoi metterli in tutta la città. L’ideale è posizionarli all’ingresso delle “Zone 30”, magari alla fine delle arterie in cui il limite rimane a cinquanta chilometri orari. A quel punto rallenti ed entri in un ambiente urbano diverso, caratterizzato da chicane, dossi, attraversamenti pedonali rialzati e marciapiedi che sopravanzano la linea dei parcheggi, con l’obiettivo di dare alle auto una miglior visibilità», spiega l’esperto. Il tema delle “Città 30”, insomma, non può che essere analizzato attraverso un approccio olistico.