Il 9 gennaio 2023, la Milano che pedala e cammina esultava per l’approvazione di un ordine del giorno del consiglio comunale sulla Città 30 dal 1 gennaio 2024. Si tratta di un provvedimento ampio, sistemico, che non si limita alla riduzione della velocità in ambito urbano (con la relativa segnaletica), ma riguarda un pacchetto di interventi volti a riequilibrare i rapporti di forza sulle strade: allargamento dei marciapiedi, Ztl, pedonalizzazioni, piste ciclabili, strade scolastiche, politiche restrittive sui parcheggi, misure severe contro la sosta selvaggia e molto altro.
Un anno dopo, la questione rimane sospesa perché l’indicazione del consiglio non si è trasformata in un provvedimento vincolante della giunta: il capoluogo lombardo, a differenza di Bologna, non è ancora a trenta all’ora. E forse, in questi ultimi due anni abbondanti di amministrazione Sala, potrebbe non diventarlo mai dal punto di vista teorico. Una Città 30 di fatto ma non di nome, insomma. È però una buona notizia a metà. Senza una norma ad hoc, infatti, potrebbero arrivare dei messaggi contraddittori e poco incisivi a una cittadinanza già intimorita da una serie di cambiamenti inevitabili: «Ma noi stiamo realizzando i principi che hanno ispirato la proposta del consiglio», raccontava Arianna Censi, assessora alla Mobilità del Comune di Milano.
A proporre l’ordine del giorno approvato nel gennaio 2023 è stato Marco Mazzei, consigliere comunale della Lista Sala e presidente della sottocommissione alla Mobilità attiva e Accessibilità, nonché promotore del provvedimento che ha spinto la giunta comunale a introdurre l’obbligo dei sensori per l’angolo cieco sui mezzi pesanti.
Nel 2023, spiega a Linkiesta il consigliere, «sono successe una serie di cose che fanno parte della Città 30, anche se non si chiamano Città 30. La questione dei sensori è un esempio: non c’entra la velocità, ma il rapporto tra mezzi grandi e piccoli in ambito urbano. Poi è partita la colorazione degli itinerari ciclabili di rosso, è ripartita una consistente progettazione legata alla ciclabilità – che si era un po’ fermata dopo il Covid – e si è fatta chiarezza su un paio di progetti iconici, ossia la Ghisolfa e corso Buenos Aires-viale Monza. Inoltre, sono arrivate le pattuglie di vigili in bici contro la sosta sulle ciclabili, senza dimenticare l’urbanistica tattica e gli interventi davanti alle scuole». Oggi circa il venti per cento delle strade milanesi ha il limite dei trenta chilometri orari, e la giunta ha intenzione di continuare il processo verso una Milano più lenta partendo dalle scuole come hub di trasformazione del contesto circostante.
Il guaio, prosegue Mazzei, «è che purtroppo non c’è una cornice, così come non c’è un racconto preciso di quello che sta succedendo. È questo il punto di debolezza di Milano al momento, anche se i segnali della Città 30 ci sono. Il problema non è il sindaco, non è l’assessora, ma la resistenza culturale diffusa, che porta il sindaco a essere prudente perché, naturalmente, coglie degli elementi che arrivano dalla città. Se le novità non vengono comunicate, si percepiscono solo le cose negative. Fare le cose senza metterle in un quadro di racconto può essere non dico controproducente, ma quasi».
Proprio ieri, nella notte di mercoledì 10 gennaio, una donna di 25 anni alla guida di un’automobile ha investito e ucciso un uomo di 37 anni in bicicletta (prima vittima “a pedali” del 2024 a Milano). Tutto ciò accadeva mentre un gruppo di attivisti appendeva nei punti nevralgici della città degli striscioni che esortavano l’amministrazione ad agire negli interessi di chi sceglie di spostarsi in modo sostenibile. Nel 2023, nel capoluogo sono morte cinque persone in bici, una in monopattino e quattordici a piedi, in diversi casi sulle strisce. Il tema della violenza stradale è quindi diventato più attuale e urgente che mai.
Non esiste un’unica ricetta per rendere le strade sicure per gli utenti vulnerabili, ma una Città 30 – nel senso più completo del termine – è oggettivamente la via maestra per ridurre il numero dei morti e feriti (anche in auto). I nostri centri urbani sono figli del boom della motorizzazione di massa e le automobili sono sempre state al centro: chi si muove a piedi o in bici reclama spazio e vive questo squilibrio come un’ingiustizia.
La Città 30 si fonda su un approccio democratico alla mobilità urbana. Non è un azzardo ideologico, ma il cuore di un processo supportato dalla scienza, dai dati e dai numerosi esempi in giro per l’Europa e il mondo: a Bruxelles, per esempio, nei primi sei mesi di Città 30 gli incidenti sono calati del venti per cento rispetto alla media del periodo 2016-2020, e il numero dei feriti gravi sulle strade è sceso del venticinque per cento. In più, come dimostra un report dell’Ufficio prevenzione infortuni – che ha raccolto diversi studi europei – la riduzione del limite di velocità in area urbana non ha «nemmeno un influsso significativo sui tempi di viaggio». Passando dai cinquanta ai trenta chilometri orari, i tempi possono addirittura ridursi di due secondi ogni cento metri. Il traffico dipende maggiormente da altri fattori, come la gestione degli incroci e il coordinamento dei semafori.
I vantaggi sono quindi oggettivi, ma proporre un cambiamento del genere non è facile: «Guardandomi indietro, se dovessi ripartire da zero, forse seguirei un percorso diverso. Mettere sul tavolo una proposta così forte in modo così netto e dirompente mi sembrava efficace per porre il tema della Città 30. Quello che probabilmente un po’ è mancato è il percorso della città, che comunque nel mio ordine del giorno era indicato: spiegava di utilizzare il 2023 per avviare una campagna di comunicazione, informazione e coinvolgimento di cittadini e aziende», dice a Linkiesta il consigliere Mazzei.
Quando le novità sono così impattanti, la comunicazione serve anche smontare i falsi miti che bloccano i cittadini e, di conseguenza, seminano prudenza nelle sale comunali. Ma senza coraggio e misure impopolari è difficile cambiare davvero: «Per la Città 30 si creano dei blocchi legati ad alcuni pregiudizi: “Ci metterò più tempo ad andare al lavoro, aumenterà il traffico, la città si bloccherà, le automobili inquineranno di più”. Oggi, prima di un provvedimento, cercherei di smontare questi elementi. Quando si propongono misure del genere in fatto di mobilità, si possono seguire due strade: quella dello shock e quella del percorso. Io avevo scelto la prima, ma oggi farei l’altra. Comunque andiamo avanti e rimaniamo ottimisti», aggiunge.
Secondo il consigliere, che ha una lunga esperienza nel mondo della comunicazione, l’approccio di Bologna (Città 30 dal 16 gennaio 2024) sta avendo successo per due motivi. Il primo riguarda la lungimiranza con cui le associazioni si sono mosse per rendere il tema più appetibile in vista delle amministrative del 2021: «Sono partiti ben prima delle elezioni, le prime cose si sono viste tra il 2018 e il 2019. La Città 30 è poi divenuta una parte integrante della campagna elettorale, quindi la coalizione che ha vinto ha avuto più margine. Infine, dopo che è diventata una misura della giunta, è partita la campagna vera e propria di racconto alla cittadinanza».
La seconda ragione, invece, è legata alla simbologia usata dalla campagna di comunicazione bolognese: «È stato eliminato dal numero 30 il simbolo del codice della strada, quindi della limitazione della velocità. Non c’è da nessuna parte il cartello del divieto di superare i trenta chilometri orari. Al suo posto ci sono alberi, cuori e altre icone che fanno capire che la Città 30 non riguarda solo la velocità, ma un modello diverso di città. Il cartello con un divieto è molto respingente e, soprattutto, credo che faccia aumentare i pregiudizi su questo percorso», dice Marco Mazzei.
Ma Milano, nel bene e nel male, non è Bologna. Deve trovare il suo modello e la sua identità, in linea con il tessuto imprenditoriale, la superficie e le ambizioni internazionali che la contraddistinguono. Secondo il consigliere comunale non è solo una questione di comunicazione: «Sulla Città 30 deve esserci una vera e propria campagna di ingaggio che spieghi concretamente le novità. A Milano, un’iniziativa del genere deve essere legata al tema del lavoro: bisogna far capire alla città che si può lavorare andando più piano, con più spazi pedonali e zone a traffico limitato. L’altro elemento riguarda la partecipazione delle aziende, che devono essere delle alleate e non limitarsi al modello “questa aiuola è sponsorizzata da”».
Al di là dell’ordine del giorno sulla Città 30, la comunicazione del Comune di Milano in fatto di mobilità, viabilità e sicurezza stradale non è stata all’altezza della rapidità dei cambiamenti (spesso positivi) avvenuti in città. Ad ammetterlo è stata anche l’assessora Arianna Censi: «Sulla comunicazione c’è ancora tanto lavoro da fare».
Secondo Mazzei, il problema è la dispersione delle competenze all’interno degli uffici: «In questa amministrazione i luoghi dove vengono fatte le politiche (gli assessorati, ndr) non sono al tempo stesso i luoghi capaci di raccontare queste politiche. Non hanno le strutture interne, non hanno le competenze. La struttura di comunicazione è centrale e ha una visione che forse è un po’ distante da ciò che accade negli assessorati: sarebbe utile riavvicinare queste funzioni, facendo in modo che chi “produce” una misura possa governarne la comunicazione».